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La ribellione dei braccianti sikh contro i caporali nelle campagne dell’Agro Pontino

Immagine di copertina
Credit: Lara Tomasetta

Siamo andati nel basso Lazio per denunciare le condizioni di sfruttamento dei braccianti agricoli indiani, costretti a lavorare 12 ore al giorno per pochi euro l'ora. Ecco cosa abbiamo scoperto

A Sabaudia è un bel giorno di sole, le persone cominciano ad affollare il litorale laziale fin dalle prime ore del mattino.

Il vento del mare spazza via l’afa e dona refrigerio. Quel vento supera la macchia mediterranea e giunge fino all’entroterra. Qui il mare e il suo luccichio non ci sono più, restano i capannoni, le stese di terra, i decespugliatori, gli aratri, e loro: i braccianti.

Migliaia di raccoglitori di frutta, verdura, zucchine e pomodori compaiono come piccole note di una musica scritta su un foglio verde, ma la loro musica è ben diversa dal suono del mare.

La storia di N. S.

“Ieri ho lavorato 12 ore, anche sabato e domenica. Quando ho provato a chiedere al mio ‘padrone’ perché dovessi lavorare così tanto ha minacciato di cacciarmi. Sono sette anni che lavoro per lui e ogni giorno della mia vita ho paura ad andare a lavoro, ho paura di ricevere insulti, grida, parolacce e minacce, vorrei solo guadagnare i soldi da mandare ai miei parenti a Calcutta, fare una vita dignitosa”.

N. S. ha 40 anni, fa parte dell’esercito di lavoratori dei campi, in massima parte di origine punjabi, ovvero sikh, che vengono sfruttati nelle campagne dell’Agro Pontino per pochi euro l’ora: 3 o 5 quando le cose vanno veramente bene, contro i 9 che vorrebbe il Contratto nazionale del lavoro.

“Sono arrivato in Italia nel 2008 pagando prima 6mila euro, per ottenere il permesso di soggiorno, e poi altri 2mila. Sognavo una vita tranquilla e un lavoro per mandare i soldi in India. Non posso parlare, non posso chiedere migliori condizioni di lavoro, quando sono in serra non posso alzarmi nemmeno per fare pipì. Ho lavorato in tutte le condizioni, anche sotto la pioggia battente, nel fango, sotto i fulmini e con il caldo atroce”.

N.S. è un bracciante della corposa comunità di indiani, quasi 35mila, che abita l’Agro Pontino e che incrementa i guadagni di alcune delle più famose e potenti aziende ortofrutticole d’Italia.

Lo sfruttamento dei braccianti

L’insalata, i pomodori e le zucchine che N. S. raccoglie da sette anni, finiscono al Mof, il mercato di Fondi, uno dei poli ortofrutticoli più grandi d’Europa, che rifornisce i mercati e le catene della grande distribuzione in Italia e all’estero. Secondo il quinto rapporto “Agromafie”, di Eurispes e Coldiretti, nel 2016 le organizzazioni criminali hanno guadagnato 21,8 miliardi di euro dallo sfruttamento del mercato agroalimentare.

E le infiltrazioni mafiose e camorriste riguarderebbero anche il mercato di Fondi.

La comunità sikh di Latina è la seconda per dimensioni in Italia, dopo quella dell’Emilia Romagna. I cittadini di nazionalità indiana regolarmente censiti nella provincia di Latina sono 10.734, ma secondo una stima di Cgil basata sulla quantità di persone che accedono a vari tipi di servizi (Caf, scuole di italiano, ecc), i sikh che vivono effettivamente qui sarebbero più del doppio.

Lo sfruttamento dei braccianti nell’Agro Pontino si nasconde quasi sempre sotto una superficie di legalità.

I lavoratori indiani senza permesso e senza un contratto sarebbero infatti una minoranza: formalmente molti hanno un contratto stagionale, ma la paga e gli orari di lavoro previsti dalla normativa nazionale (9 euro lordi e non più di sei ore al giorno) non vengono quasi mai rispettati. E così molti lavorano di fatto per 3 euro l’ora o meno.

Ma N.S. non è più disposto a subire. Ha preso coscienza dell’ingiustizia cui è sottoposto e ha deciso di denunciare, esattamente come hanno fatto gli altri 17 braccianti della stessa azienda, che sono riusciti a mandare in prigione il caporale e a far aprire un processo.

Negli ultimi due anni nelle campagne dell’Agro Pontino si sono registrati dieci casi di suicidio di braccianti sfiniti da condizioni estreme di lavoro e di pressione psicologica.

Ma le cose stanno lentamente cambiando e questo cambiamento lo si deve anche a Marco Omizzolo, ricercatore, giornalista e sindacalista, responsabile scientifico della cooperativa In Migrazione, che da anni si occupa delle condizioni in cui i raccoglitori vengono impiegati dalle novemila aziende della piana – condizioni da schiavitù denunciate più volte senza risultato: paghe infime, ricatti, baracche, mafie, e tutta la liturgia dello sfruttamento agricolo che impone una certa filiera nel Lazio come in altre regioni.

È lui ad aver organizzato il primo sciopero della storia dei braccianti sikh. Quattro mila persone radunate in piazza della Libertà, davanti alla prefettura di Latina. Era il 18 aprile 2016. Un giorno che ha segnato una piccola vittoria per i diritti dei braccianti.

I braccianti sikh hanno riscoperto la loro combattiva natura: pacifica, ma finalmente arrabbiata. D’altronde il decimo guru, secondo il sikhismo, fu un guerriero.

Come si sono convinti a smettere di accettare le regole subite stagione su stagione le migliaia di raccoglitori di frutta, verdura, zucchine e pomodori, angurie, ravanelli?

Il Tempio di Gurudwara

“Tutto è cominciato qui, nel Tempio. È qui che ci siamo incontrati e abbiamo cominciato a parlare tutti insieme di un problema che non poteva più essere ignorato”.

A raccontarcelo è proprio Marco Omizzolo, e il tempio di cui parla è quello di Gurudwara. Lo hanno eretto gli indiani sikh nelle campagne ed è il loro punto di ritrovo.

Dopo aver attraversato le stradine che costeggiano i tanti campi coltivati, vediamo la bandiera arancione della comunità sikh che sventola per testimoniare la propria presenza e offrire aiuto a ogni indiano che ne abbia bisogno. Al Tempio incontriamo Marco e Gurmukh Singh, rappresentante della comunità sikh del Lazio.

“Con Gurmukh Singh, figura di riferimento forte per la comunità, abbiamo dato vita agli incontri. Vederci in un luogo di culto ha dato maggiore forza al messaggio, ad incitare a fare denuncia”, spiega Marco.

“Gurmukh ha organizzato con noi lo sciopero, le occupazioni delle serre: a forza di battere ce l’abbiamo fatta. Segue tutte le vertenze perché parla bene l’italiano è un punto di riferimento”.

E la forza della comunità ha dato coraggio: in due anni sono state presentate circa 150 denunce, tra vertenze, esposti, e alcuni caporali sono stati arrestati.

Ma con le denunce arrivano anche le minacce, e nessuno ne esce incolume.

“Nel mio caso”, racconta Marco, “hanno squarciato tutte e quattro le gomme dell’auto, hanno sfondato il cofano e il vetro. Io però mi occupo anche delle mafie in senso tradizionale, sono soggetto a maggiore attenzione. In un’altra occasione qualcuno ha stampato e distribuito tra Fondi, Sabaudia e San Felice, 5mila copie di un volantino sul quale c’erano scritto il mio nome e cognome e i riferimenti della Cigl, dicendo che eravamo al centro di un traffico internazionale di esseri umani. Questo accade quando tocchi un’azienda e non tutti sono d’accordo”.

Stessa sorte è toccata a Gurmukh, anche a lui è stata presa di mira l’auto e diverse persone si sono più volte fatte vedere con aria minacciosa davanti al suo negozio.

“La paura di denunciare prima era tanta, nessuno voleva alzare la voce, poco alla volta abbiamo cominciato a trovare il coraggio”, racconta Gurmukh.

“Da 5 anni mi occupo di queste vicende e da quando abbiamo incontrato Marco ci siamo convinti che il modo migliore era affrontare i problemi tutti insieme. Abbiamo iniziato con un’azienda che doveva ben 100mila euro a 27 braccianti. Coinvolgendo i carabinieri, la Cgil e la comunità ci siamo fatti prendere sul serio e abbiamo organizzato una protesta. Il padrone, spaventato dalla situazione, ha pagato subito i primi 50mila euro e nel giro di un mese ha saldato tutto. Abbiamo anche fatto alzare il salario da 3 a 5 euro l’ora”.

“Ma siamo solo all’inizio”, spiega Gurmukh, “la situazione è ancora grave, ci sono molti episodi in cui gli indiani si sentono soli e non sanno reagire alle oppressioni”.

Gurmukh per 15 anni ha fatto il bracciante, prima di decidere di aprire un’attività commerciale. Nella sua lunga esperienza in Italia ha dovuto riconoscere anche i sikh che si erano suicidati.

“Lo fanno in casa o si impiccano nei capannoni, è molto brutto. Le condizioni di lavoro sono ancora troppo pesanti. Non hanno nemmeno la strumentazione per lavorare nei campi. Mascherine e stivali devono comprarli da soli”, spiega Gurmukh.

“Quando sei sfruttato hai due alternative: o il suicidio o lo scatto di orgoglio e la denuncia”, spiega Omizzolo.

“Abbiamo seguito il caso di un ragazzo indiano che a Latina viveva in condizioni pessime all’interno di una roulotte, senza luce, acqua e gas, e qualche volta dormiva in una stalla per paura che il padrone lo picchiasse. Si sfamava con gli avanzi dell’agriturismo del padrone, prendeva 150 euro al mese, era obbligato a chiamare ‘padrone’ il datore di lavoro: un livello estremo di disagio”.

“La coda dello sciopero e le proteste gli hanno dato coraggio per denunciare”, prosegue Marco. “Lo Stato lo ha premiato, abbiamo sottoscritto un accordo con la questura ed è diventato il primo caso in Italia di indiano che ha ottenuto il permesso di soggiorno per motivi di giustizia”.

Il 18 ottobre 2016 è stata approvata la legge sul caporalato, che ha dato un primo impulso al contrasto di questa attività criminosa.

“La legge sul caporalato ha aiutato in generale, la provincia di Latina è quella dove c’è il maggior numero di padroni e caporali arrestati, ma non è sufficiente. La legge per la prima volta li manda in galera e sotto processo, ma bisogna prevenire”, spiega Omizzolo. 

“Per il momento si riesce a mandare in galera in caporali dopo che hanno già sfruttato le persone, dobbiamo impedire che il bracciante lavori per anni 14 ore al giorno per guadagnare 300 euro al mese”. 

Ma il supporto delle istituzioni in questa battaglia è ancora molto debole: su 12 comuni coinvolti, solo 3 hanno preso posizione. Il comune di Latina ha dichiarato di costituirsi parte civile nei processi contro il caporalato ma ancora non si è trasformata in un’azione concreta.

Nel frattempo, la corposa comunità sikh cerca di organizzarsi come può e fa squadra anche contro ogni forma di sopruso, compresi quelli nei confronti delle donne che in alcuni casi sono state vittima di sfruttamento e sottomissione sessuale.

“Abbiamo avuto rari episodi in cui alcune donne sono state molestate sessualmente e costrette a offrire prestazioni sessuali con i caporali che le sottomettevano e le sfruttavano, ma il fenomeno è contenuto”, racconta Marco.

La comunità sikh ha un profondo rispetto del ruolo della donna, un profondo senso di protezione. È per questo che Gurmukh ci spiega: “Sanno come siamo fatti, la nostra religione ha molto rispetto per le donne e diventiamo agguerriti quando qualcuno tenta di offenderle. Prima di agire in questo modo le persone ci pensano molte volte”. 

Il Residence Bella Farnia Mare

Le migliaia di braccianti sikh che nel corso degli anni si sono trasferiti nell’Agro Pontino hanno trovato diverse soluzioni abitative. Nel migliore dei casi hanno preso in affitto delle case, in altri è intervenuta nuovamente l’illegalità che ha sfruttato ancora le esigenze dei nuovi lavoratori.

Tremila braccianti abitano al Residence Bella Farnia Mare. Costruito negli anni Ottanta, doveva essere un gioiello turistico, ma è fallito. Un posto letto costa 150 euro al mese. È una piccola città indiana nel Lazio. Ad ogni alba, gli indiani inforcano la bicicletta e vanno ad inginocchiarsi nei campi.

Il Residence era composto da seconde case per i vacanzieri, in una zona tranquilla, ma dopo che il progetto immobiliare è fallito, nel corso degli ultimi 20 anni, è stato dato in affitto agli indiani come forma di business. 

Inizialmente c’erano solo i braccianti singoli, poi sono arrivati i bambini e le donne grazie ai ricongiungimenti familiari. In abitazioni di 35 metri quadri vivono dalle 4 alle 8 persone, con casi di evidente disagio. Rispetto alla facciata esterna, che mantiene un apparente stato di tranquillità, l’interno del residence mostra uno stato di progressivo abbandono che permane tra l’indifferenza degli italiani. 

“Rispetto agli episodi di razzismo degli italiani nei confronti degli indiani che hanno caratterizzato i primi anni di insediamento dei sikh nel basso Lazio, oggi la situazione è discretamente migliorata, anche per la maggiore attenzione dei media e delle istituzioni sulla comunità. Si vive in uno stato di reciproca indifferenza, ma esistono anche occasioni di dialogo e di confronto”, spiega Marco. 

Riuscire a fronteggiare un sistema così complesso e intrecciato, composto sia da aziende di medie e grandi dimensioni, sia da clan che si contendono il controllo del territorio, non è affatto semplice. A questa struttura si intersecano infiltrazioni camorristiche per la gestione della logistica e della tratta degli esseri umani.

Si tratta di un sistema polverizzato in cui non è possibile individuare un capo-clan di riferimento.

Il nemico diventa chiunque, anche solo una persona legata a una delle aziende che sono state denunciate per sfruttamento.

“Il nemico”, conclude Marco, “può arrivare alle spalle in qualunque momento, non sai chi sia, e questo lo rende ancora più pericoloso e minaccioso in una battaglia che non è ancora finita”. 

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