Belice, le lotte civili da non dimenticare ad oltre 50 anni dal terremoto
Il sisma del 1968 colpì una zona d'Italia molto arretrata, ma lo fece in un momento di intenso fervore sociale. Questo rende la storia delle proteste del dopo-terremoto unica e irripetibile
Pur essendo nata e cresciuta nella Valle del Belice in Sicilia, e precisamente a Castelvetrano, sapevo ben poco del terremoto e del periodo della successiva ricostruzione finché non ho iniziato a farmi delle domande e a cercare le risposte.
Conoscevo, ovviamente, i ricordi personali dei miei genitori, che erano poco più che bambini quel tragico 15 gennaio del 1968, quando una scossa di magnitudo 6.3 con epicentro tra Salaparuta, Poggioreale e Gibellina, ha distrutto interi paesi e ne ha danneggiati profondamente altri.
Ciascuno dei sopravvissuti ricorda esattamente dove si trovava quella notte, così è naturale che lo racconti ai suoi figli e ai figli dei suoi figli.
Avevo poi visto e sentito parlare delle new town, i nuovi paesi ricostruiti quasi tutti nelle vicinanze di quelli terremotati.
Ciò che non sapevo, tuttavia, era che il terremoto colpisce la Valle del Belice in un momento di intenso fervore sociale, dovuto soprattutto al lavoro di sociologi e attivisti come Danilo Dolci, Lorenzo Barbera, Pino Lombardo, Franco Alasia, e di politici avveduti come Vito Bellafiore e Ludovico Corrao.
Basti pensare che in quel periodo, e più precisamente dal 7 all’11 di marzo del 1967, il Centro studi e iniziative per la piena occupazione, fondato da Danilo Dolci e dai suoi collaboratori nel 1958, organizza nella Valle de Belice una marcia “Per la Sicilia occidentale e per un mondo nuovo”. I manifestanti vanno a piedi dalla cittadina di Partanna, nel trapanese, fino a Palermo.
È una manifestazione che agisce su più fronti: da un lato si chiede la pace (sono gli anni della guerra in Vietnam, e alla marcia partecipa anche il poeta vietnamita Vo Van Ai), inoltre durante le varie tappe viene presentato e discusso il “Piano di sviluppo della Valle del Belice”, che è frutto del lavoro dei quattro anni precedenti del Comitato Intercomunale che raggruppa 25 comuni della zona e del Centro Studi di Dolci.
Alla protesta partecipano intellettuali famosi a livello nazionale, come lo scrittore Carlo Levi, il pittore Ernesto Treccani, il pedagogista Lucio Lombardo Radice. Alla fine della marcia, i manifestanti presentano il piano alle autorità regionali e nazionali: tra le altre cose, chiedono di creare un sistema di dighe per l’irrigazione del territorio e lo sviluppo agricolo e lo scorrimento veloce Palermo-Sciacca.
La notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968 avviene il disastro. A perdere la vita sotto le macerie sono circa 300 persone, altre muoiono nei giorni immediatamente successivi, tra freddo, ritardi e caos nei soccorsi.
Dopo il terremoto e un breve momento di spaesamento, il Centro studi e i comitati cittadini riprendono le proteste e le lotte civili per la ricostruzione, che iniziano alcuni giorni dopo il sisma e proseguono fino alla metà degli anni Settanta.
Il viaggio dei terremotati a Roma
Nel 1968 il terremoto colpisce un’area della Sicilia poco sviluppata, e con una forte tendenza all’emigrazione. Le autorità statali, subito dopo il sisma, mettono a disposizione passaporti e biglietti gratuiti per chi intende emigrare: una misura avviata forse con l’intento di aiutare le singole famiglie, ma che rischia di aumentare lo spopolamento dei comuni terremotati, i quali vedono messa a rischio la possibilità di essere ricostruiti.
Per questo, alcuni amministratori locali dei comuni del Belice – primo fra tutti l’allora sindaco di Santa Ninfa Vito Bellafiore – radunano i propri concittadini chiedendo loro di non partire, e organizzano una protesta a Roma per far sì che il Parlamento approvi una legge con gli stanziamenti necessari a ricostruire i paesi distrutti.
Viene organizzata per il primo marzo 1968, un mese e mezzo dopo il terremoto, una manifestazione che avrebbe portato a Roma mille e cinquecento terremotati. A guidare la protesta sono i membri del Centro Studi di Danilo Dolci di Partanna: Lorenzo Barbera e i suoi collaboratori, ma ci sono anche diversi sindaci e rappresentanti delle popolazioni colpite.
Durante il viaggio, i manifestanti attraversano una serie di vicissitudini a cui oggi si stenterebbe a credere: il treno speciale che avevano prenotato sparisce e poi ricompare, funzionari governativi intimano agli organizzatori di desistere dal viaggio, infine ai rappresentanti dei terremotati viene impedito di entrare a Montecitorio per assistere alla discussione della legge perché non indossano la cravatta. Loro non si fermano di fronte a queste difficoltà, e con un espediente riescono a entrare nell’aula della Camera. La discussione sulla legge dura due giorni, ma alla fine il testo viene approvato, con un finanziamento di 162 miliardi e 450 milioni di lire (l.n. 241/1968).
I paesi saranno ricostruiti, ma il potere decisionale e gestionale della ricostruzione viene accentrato nelle mani dello stato, che delega il compito all’ISES, un istituto che si occupava di edilizia scolastica. A sua volta, l’ISES delega all’Ispettorato per le zone terremotate, un ente appositamente creato alle dipendenze del Ministero dei Lavori Pubblici.
Il 9 luglio 1968 si tiene un’altra protesta a Palazzo dei Normanni, con la quale si chiede il coinvolgimento dei sindaci nelle decisioni sulla ricostruzione.
Il piano di sviluppo per la ricostruzione delle Valli del Belice, del Carboj e dello Jato
Molti dati economici e sociali sul territorio colpito dal terremoto erano già stati raccolti per la realizzazione del piano di sviluppo, e per questo il Centro Studi di Danilo Dolci, con sede a Partinico, elabora subito dopo il terremoto un piano per la ricostruzione, che viene presentato a settembre del 1968 (appena nove mesi dopo il sisma).
Il documento prevede la ricostruzione dei comuni che avrebbero dovuto essere trasferiti totalmente (Montevago, in provincia di Agrigento; Gibellina, Poggioreale e Salaparuta in provincia di Trapani), in una zona che li avrebbe avvicinati agli altri, in modo da creare quella che veniva definita “città territorio”: un’area con più abitanti e di conseguenza più servizi. Di questo piano, tuttavia, gli enti statali incaricati di progettare la ricostruzione, non tengono conto.
Il giudizio di Roccamena
Le autorità statali, che a marzo avevano promesso le baracche pronte entro tre mesi, non hanno mantenuto la parola data. Così, ad agosto del 1968 un’assemblea popolare a Roccamena, a cui partecipano anche i membri del Centro Studi di Danilo Dolci, decide di fare una protesta originale: sottoporre i politici che non hanno mantenuto le loro promesse a un “processo del popolo”. Nasce così il giudizio popolare di Roccamena. Vengono formati dei comitati, ognuno dei quali prepara il dossier per un politico regionale o nazionale, e stila i capi d’accusa.
Tutti i politici accusati vengono invitati a preparare la loro difesa. A novembre si tiene il giudizio, e alcuni politici si presentano e offrono le loro giustificazioni. Alla fine, una giuria popolare li condanna simbolicamente a trascorrere insieme alle loro famiglie, un periodo di tempo più o meno lungo nelle baracche con i terremotati. Nessuno ovviamente “sconta” questa condanna.
Il giudizio di Roccamena segna anche la fine della collaborazione tra Danilo Dolci e Lorenzo Barbera, che fonda il Centro Studi Valle del Belice a Partanna. Dolci, infatti, non condivide le modalità con cui si è svolto il giudizio, che riguardava singole persone e non l’istituzione nel suo insieme e per questo è ritenuto “violento”.
La Radio dei Poveri Cristi
Due anni dopo il terremoto, le condizioni di vita dei terremotati sono ancora critiche, e la ricostruzione non è neppure cominciata. In segno di protesta, Danilo Dolci e alcuni suoi collaboratori, tra cui Pino Lombardo di Santa Ninfa, danno vita alla Radio dei poveri cristi, la prima “radio libera” in Italia, dove la legge ancora vietava le trasmissioni radiofoniche private.
Il 25 marzo 1970 per alcune ore questa radio va in onda da Palazzo Scalia di Partinico, con la lettura di testimonianze e di poesie, fino a quando la polizia non interviene ordinando la cessazione delle trasmissioni.
L’anno dei tre chiodi e lo “Stato fuorilegge”
Siccome lo stato non ha rispettato le promesse sulla ricostruzione, che erano state messe per iscritto con la legge 241 del 1968, i belicini guidati dal Centro Studi di Lorenzo Barbera a Partanna danno inizio a una nuova protesta dichiarando lo stato “fuorilegge”. E a uno stato fuorilegge non si pagano le tasse, né le bollette o l’acqua.
Prende avvio quello che Barbera chiama “l’anno dei tre chiodi”, con una protesta che viene fermata solo quando lo stato italiano annuncia: le popolazioni terremotate sono esentate dal pagamento delle imposte. In questo modo i terremotati vengono “disarmati” del loro strumento di pressione. La misura dell’esenzione dalle tasse è divenuta poi una prassi abituale nei casi di disastri naturali.
La lotta per il servizio civile in sostituzione di quello militare
Nel 1970 i giovani di Partanna e di altri paesi del Belice, che sarebbero dovuti partire per il servizio di leva obbligatorio, rifiutano di presentarsi alla chiamata alle armi, e, con il supporto del Centro Studi guidato da Lorenzo Barbera costituirono dei “comitati antileva”, e protestano in modo organizzato per ottenere la possibilità di svolgere un servizio civile per la ricostruzione nel loro territorio al posto del servizio militare.
Dopo mesi di lotte e proteste, e il tradimento delle promesse da parte del ministro della Difesa Tanassi, il governo vara un decreto che riconosce loro questo diritto. Si tratta del primo passo verso il riconoscimento dell’obiezione di coscienza in Italia. Per la legge che garantisce a tutti questa possibilità bisogna aspettare fino al 15 dicembre 1972, con la legge numero 772.
Le lettere dei bambini di Santa Ninfa e don Riboldi
Nel 1973 arriva dallo Stato un nuovo finanziamento, di 186 miliardi e 200 milioni di lire (complessivamente viene stanziata quindi in cinque anni una cifra pari a 348 miliardi e 650 milioni – per farsi meglio un’idea, basti pensare che la prima dotazione finanziaria dopo il terremoto nel Friuli del 1976 fu superiore a tutti i finanziamenti previsti per il Belice in 25 anni).
Due anni dopo, nel 1975, l’Ispettorato fa sapere che i fondi sono stati tutti spesi per le opere di urbanizzazione: a otto anni dal terremoto ancora nessuna casa è stata ricostruita con i soldi dello stato. Questo determina l’avvio di una nuova ondata di proteste: i bambini della scuola di Santa Ninfa, su iniziativa del loro insegnante Don Antonio Riboldi, recentemente scomparso, inviano lettere ai parlamentari e alle altre autorità dello stato. I bambini si recano poi a Roma il 24 febbraio 1976 dove vengono ricevuti dal Presidente della Repubblica Giovanni Leone e dal Presidente della Camera Pertini. Vengono promessi nuovi finanziamenti, che arrivano ad aprile 1976 (250 miliardi di lire).
La lotta per la ricostruzione nel Belice non finisce ovviamente con questi ulteriori stanziamenti. Solo la legge 120 del 1987, su richiesta dei sindaci, equipara i contributi per i terremotati del Belice a quelli del Friuli o dell’Irpinia. Il coordinamento dei sindaci del Belice continua a fare pressione per ricevere i fondi necessari, che arrivano sempre con il contagocce, come si evince dalle relazioni del 1992 e degli anni successivi firmate dal capo del coordinamento Vito Bellafiore.
Oggi la ricostruzione del Belice è quasi del tutto ultimata, anche se non può dirsi lo stesso della promozione della rinascita promessa dallo stato e mai attuata con delle misure concrete.
Anche se ad oggi alcuni obiettivi sono stati raggiunti e altri sono falliti, le proteste dei primi mesi e anni dopo il terremoto hanno il merito di aver mantenuta sveglia e attiva l’attenzione dell’Italia su un’area altrimenti marginale del nostro paese. Ricordarle oggi, in occasione del cinquantesimo anniversario dal sisma, è importante perché, come mi hanno ripetuto più volte sia Vito Bellafiore sia Pino Lombardo, collaboratore di Danilo Dolci, i risultati non arrivano per caso, bisogna che ci sia chi giornalmente persegue un obiettivo di miglioramento e di sviluppo per una comunità.
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