“Così difendo le donne vittime di stupro e violenza”, intervista a Selene Pascasi, avvocato e scrittrice
Cosa prova un avvocato donna che difende chi è sopravvissuta alla violenza e allo stupro? Selene Pascasi prova a raccontarlo nel suo romanzo "Dimmi che esisto"
Selene Pascasi è avvocato, ma è anche donna, giornalista e scrittrice. Nel suo romanzo Dimmi che esisto (Editore La Gru, 2018) queste componenti si uniscono per raccontare cosa vuol dire difendere in aula le donne vittime di violenza.
La protagonista del romanzo, Giulia Ansaldi, è un avvocato divorzista che accetta di difendere una sua cliente in un processo per stupro. Sebbene non sia la sua materia, Giulia si butta in quella causa con tutta se stessa e ottiene una condanna senza sconti.
Per la sua assistita è la fine di un incubo. Ma Giulia si trova costretta a fare i conti con il suo passato, un passato a sua volta caratterizzato dalla violenza. Quello di Selene Pascasi è un MeToo letterario, e il suo libro esce in un momento in cui fare un passo avanti contro la violenza di genere, in Italia, è ancora più importante. TPI l’ha intervistata.
Nell’unico modo in cui, penso, si possa vivere: con totale empatia e massima professionalità. È uno dei compiti più delicati e difficili che esistano. Intanto, occorre una solida preparazione. Non basta essere avvocati. Serve specializzarsi, studiare, aggiornarsi, essere sempre attenti sia alle riforme (che si moltiplicano a stretto giro) che alle pronunce dei vari giudici.
In Italia le sentenze non “fanno legge”, sia chiaro, ma una tutela a trecentosessanta gradi presuppone una padronanza della materia che si acquisisce anche mediante la conoscenza dei più recenti orientamenti giurisprudenziali. Questa è la componente tecnica, chiamiamola così. Ingrediente necessario ma, come accennavo, non sufficiente perché un avvocato ferrato, senza una buona dose di empatia, è sempre troppo poco per garantire ad una donna violata la difesa che merita.
Se sei seduta alla tua scrivania, regole chiarissime in mente, ma non riesci ad immedesimarti nella cliente, se non riesci a rivivere con lei il dramma della violenza, forse è meglio se ti occupi di altro. Il fattore umano è la chiave che ti consente di mirare dritto all’obiettivo e raggiungerlo.
La maggiore difficoltà è strettamente connessa alla necessità di entrare in simbiosi con il caso e respirarlo a pieni polmoni. Paradossalmente, è proprio quell’empatia di cui ti parlavo che può diventare un’arma a tuo sfavore, una sorta di boomerang. Mi spiego, calarsi nei fatti è vitale ma nel farlo bisogna prestare attenzione a restare sempre un passo indietro. Come? Imparando a gestire le emozioni.
Chi scende in campo nella lotta contro la violenza deve sentirsi vittima in prima persona per poter affilare le armi e usarle al meglio ma deve esserlo “quanto basta”, per evitare che un coinvolgimento totale possa pregiudicare la lucidità di pensiero. Insomma, la ricetta da seguire non è per nulla semplice e, soprattutto, non la si impara solo sui libri perché, come in tutte le missioni che si rispettino, serve predisposizione e passione. E quando vinci una causa, beh, il momento più bello è quando guardi negli occhi chi si è affidato a te e vedi nel suo sguardo una luce diversa… la luce della rinascita.
Difficile risponderti perché questo romanzo non è nato da un’idea ben precisa. Non è che io mi sia messa a tavolino e abbia deciso di scrivere un libro sulla violenza di genere. È stato un percorso inatteso.
Ho iniziato a scaraventare su carta delle idee per anestetizzarmi da una situazione familiare molto difficile. La solitudine di un momento della mia vita, la malattia di mio padre, le angosce di un futuro che io e mia madre non sapevamo come gestire. Così, un po’ per nascondermi, un po’ per terapia, mi sono confidata con lo schermo del computer senza seguire logiche o impalcature narrative.
Pagina dopo pagina, mi sono ritrovata a parlare di violenza sulle donne. Ma non l’ho voluto fare (questo sì che l’ho deciso) cadendo nel vittimismo, perché noi donne siamo vittime, è vero, ma sappiamo rialzarci.
Nella prima pagina del romanzo scrivo: una donna abusata è una fenice. Ricordalo, mentre le tatui di nero il corpo e l’anima. Le tue mani vigliacche non le strapperanno via la dignità. Lei rinascerà. E userà proprio la tua misera violenza per rinascere. Per amarsi ancora. Per non permettere più a nessuno di spegnere i suoi sogni. Perché la donna è resilienza.
Anche questa strana combinazione non è ragionata. Scrivo liriche fin da bambina, è un vizio dal quale non penso riuscirò a disintossicarmi (senza penna in mano e sguardo perso, a dir la verità, non sarei io) e quando mi sono trovata a parlare di alcune situazioni descritte nel romanzo, mi sono salite in gola delle poesie che ho voluto lasciar lì dove erano nate.
Mi sono chiesta se la lettura potesse risentire di quelle pause poetiche ma ho fatto spallucce e sono andata avanti perché credo nella scrittura pura. Credo, non per presunzione, in una scrittura che sia davvero mia, che sia vera. Come dire? Se plasmassi il mio scrivere su standard preconfezionati, avrei maggiori certezze di riscontro economico ma asservirei la penna a gusti commerciali in cui non mi ritroverei. Non sarebbe il mio romanzo ma quello di altri. E non sarebbe onesto per il lettore.
Certo, per pubblicare un libro “puro” devi avere la fortuna di incrociare un editore puro come il mio: Massimiliano Mistri di Edizioni La Gru, che si è innamorato del mio lavoro fin dalle prime pagine. La casa, ispirata alle figure di Longanesi e Neri Pozza e selezionata da Greenpeace tra i 14 editori amici delle foreste, ha lanciato nomi come Lorenzo Marone e combatte l’editoria a pagamento.
Molto ma, ovviamente, non tutto. Giulia è un legale ed è una donna, esattamente come me. E come me, anche lei convive con due personalità solo apparentemente diverse: la professionista affermata che trascorre gran parte del suo tempo fra fascicoli e storie di abusi e violenze, e la sognatrice che vive di musica e di poesia e che, nonostante le batoste della vita, non smette di credere nell’amore e in quei valori che si stanno, purtroppo, dissolvendo.
Personalità che, come comprenderà chi leggerà il romanzo, sono molto più simili di quanto si pensi. Una Giulia che mi assomiglia tanto, quindi, ma che ha vissuto esperienze terribili, grazie al cielo, lontane da me. Sotto questo aspetto, diciamo che Giulia è tutte le donne di cui, finora, ho difeso i diritti. Tutte quelle che ho aiutato a vincere la battaglia più dura che non è quella che si combatte in un’aula di udienza ma quella che si combatte con noi stesse.
Ogni volta che una donna viene ferita, umiliata, graffiata dall’arroganza di un mostro, quella donna perde un soffio della propria identità. Cade nella trappola del non amore. Smette di amarsi. Si colpevolizza. Cerca in se stessa mancanze che non ha. Ma così, in qualche modo, assolve il suo carnefice. E invece no. Deve avere il coraggio di scavare nel suo intimo e rimettere insieme i pezzi. Quella, è la vera vittoria.
La protagonista del tuo romanzo a un certo punto si trova a fare i conti con il proprio passato. Il suo è una sorta di MeToo letterario?
Esatto. Se pensiamo che è bastato affiancare due parole “Me too” (anch’io) per unire tutto un universo femminile e accendere un movimento tanto dirompente, ci rendiamo conto di quanto sia potente la voce unita delle donne.
Insieme siamo fenomenali, siamo fenici, appunto, siamo un oceano di emozioni e di reattività che, se ben motivato, non trova ostacoli di sorta. E quale motivazione più giusta del volersi riprendere la vita anche a costo di soffrire, di riaprire delle vecchie ferite, di tornare a rivivere con la pelle e col cuore brutte esperienze? La risposta mi pare ovvia.
Esigere rispetto, nel lavoro, nella vita di coppia, nelle relazioni quotidiane è il senso del vivere di ogni essere umano, uomo o donna che sia. Quando si ledono i diritti di qualcuno, si commette un crimine, sempre e comunque. Ma se quando parlo di violenza, parlo al femminile, è perché non sono i dati, le statistiche a tingere di rosa la platea delle vittime.
Pensiamo anche alle donne indotte, dai datori di lavoro, a rinunciare a incarichi o ad avanzamenti di carriera perché messe spalle al muro dal più subdolo ricatto che esista: scendere a compromessi e, poi, fare silenzio. Ma il silenzio uccide. E se è dovere di ciascuno ribellarsi allo stagnare di un sistema malati, lo è ancora di più per uno scrittore, per un artista che ha, fra le mani, lo strumento della comunicazione.
Ben venga, allora, un contagioso MeToo letterario che provochi dipendenza, sensibilizzando al rispetto e alimentando l’intelligenza emotiva.
Riallacciandomi a quanto ti dicevo, un movimento così dirompente fa ben sperare perché è sintomo di fermento, esprime sete di cambiamento, desiderio di esprimere la propria opinione, giusta o sbagliata che sia. E ciò è vitale in una società che declina verso una pericolosa staticità.
Ho il timore, te lo confido, che si stia cronicizzando un malessere grave: l’anestesia di pensiero. Vuoi per l’uso smodato dei social, vuoi per l’effetto “cultura al ribasso” insito in alcuni format non solo televisivi ma esistenziali, il rischio è uniformarsi su modelli discutibili svuotati da ogni capacità critica. Così, quando senti parlare di reazione tiri un sospiro di sollievo e continui a lottare, perché capisci c’è ancora motivo di lottare.
Citi le reazioni contrastanti. Ecco. Mi stupirei se non ci fossero. Forse per un umano spirito di contraddizione, da sempre c’è chi ama sedersi sul lato opposto della barricata. Nel caso del MeToo, però, suppongo che il motivo del contrasto manifestato contro il movimento sia da ricercarsi nella sovrapposizione scorretta vittima-vittimismo. Essere vittima non deve significare vestirsi di vittimismo. Si è vittime ma si è donne e dal tunnel, anche dal più orribile, si può uscire. E lo si può fare mantenendo alta la dignità.