Autonomia delle regioni, i medici in rivolta: “Egoismi distruggono il sistema, sanità solo per ricchi”
Filippo Anelli, presidente della federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, commenta a TPI le possiibli conseguenze dell'autonomia differenziata per le regioni del nord
Potagonista dei cartelloni che vedete in foto, una donna malata, in trattamento chemioterapico, avvolta in una bandiera tricolore, accompagnata da una richiesta di aiuto: “Italia non abbandonarci. Vogliamo una Sanità uguale per tutti. La salute è un diritto di tutti”.
È la risposta dell’Ordine dei medici di Bari alle richieste di autonomia differenziata di Lombardia, Veneto ed Emilia, che secondo l’Ordine rischia di negare l’uguaglianza dei cittadini in tema di salute.
L’“autonomia differenziata”, secondo medici e sindacati, rischia infatti di rappresentare la fine del Servizio sanitario nazionale come oggi lo conosciamo.
L’articolo 116 della Costituzione attribuisce già alle regioni alcune competenze statali in materia di salute. Ma con l’autonomia differenziata, da quello che si legge nelle bozze di intesa, cadrebbero molti altri vincoli.
Cambierebbe tutto anche in termini di spesa: il governo propone che le regioni stabiliscano i propri livelli essenziali di assistenza (Lea) e le proprie tariffe, pagando il tutto con i propri soldi, con riferimento al costo storico delle funzioni e attraverso la compartecipazione delle imposte, anche in difformità rispetto ai vincoli di bilancio validi per le altre regioni.
Da qui l’idea della campagna che vuole esprimere la preoccupazione dei professionisti della salute di fronte a una riforma poco trasparente. TPI ne ha parlato con Filippo Anelli, presidente della federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri.
La campagna nasce dalla preoccupazione che questo sistema nazionale sanitario non regga più perché con l’introduzione dei modelli proposti di regionalismo salta il sistema della solidarietà tra le persone e tra le regioni.
Attualmente il sistema si basa proprio sulla solidarietà: puoi trovare in ospedale sullo stesso tavolo operatorio un disoccupato e un imprenditore. Uno non versa nulla nei confronti dello Stato, l’altro migliaia di euro, eppure hanno le stesse cure.
Per le tasse, ognuno di noi contribuisce in base alla propria capacità contributiva. Lo Stato mette a disposizione quei 115 miliardi, e le regioni, in spirito di solidarietà, definiscono i modelli per la ripartizione di questo ammontare. Se salta il principio di solidarietà, ognuno tratterrà per sé le risorse che vengono dalle tasse dei propri cittadini.
Nel momento in cui salta il meccanismo di ripartizione delle risorse e ogni regione le trattiene per sé, i soldi non saranno più dello Stato, e ogni regione in maniera egoistica si tiene quelle che sono le tasse che avrebbe dovuto versare nel fondo nazionale.
Facendo saltare il meccanismo di solidarietà, si modifica radicalmente il sistema, il sistema diventa soltanto per i propri cittadini, saltano così quelli che sono gli obiettivi di salute che faticosamente ma con capacità abbiamo raggiunto in questi anni.
Una regione italiana anche con un pil basso, se paragonata a uno Stato europeo dell’est, con lo stesso pil, non produce gli stessi risultati di salute. In Italia i risultati sono molto più elevati.
Siamo preoccupati che salti questo modello, perché oggi questo modello produce servizi anche a cittadini che non hanno nulla. Pensiamo al fatto che l’Italia è il Paese più longevo al mondo dopo il Giappone: questo avviene grazie a un sistema sanitario che garantisce lo stesso accesso a tutti.
Se salta questo sistema, i problemi non saranno solo al sud, ma in tutta Italia. Nessuno ha dimostrato che esiste un modello migliore di questo.
Ogni regione, avendo una potestà legislativa autonoma, deciderà per sé. Pensiamo a qualche caso specifico: il Veneto magari toglierà i medici di famiglia e introdurrà all’interno degli ospedali i neolaureati senza specializzazione, un’alterazione della formazione che comporterà un peggioramento dei livelli di qualità del servizio. Questo ci preoccupa.
Ma a cambiare saranno anche i modelli delle prestazioni per i cittadini: le regioni hanno infatti chiesto anche di gestire la distribuzione dei farmaci: potrebbero essere gratuiti in Veneto e a pagamento in Liguria. La Lombardia, che ha un’altra autonomia, potrebbe garantire solo i farmaci neoplastici, tutto il resto dovrebbero essere garantiti dalle mutue integrative. Non sappiamo come si evolverà la cosa ma potrebbe creare delle iniquità.
Certo. Potranno soffrire ancora di più.
L’altra questione è il metodo.
Non abbiamo oggi una discussione aperta su un tema così importante, tutto avviene nelle segrete stanze della politica, dove i documenti non sono disponibili. Oggi, come enti sussidiari dello Stato, non siamo coinvolti e non abbiamo documenti su cui possiamo esprimere un parere. Questo significa che per le regioni del sud il problema sarà ancora più accentuato.
Abbiamo fatto grandi passi in avanti, abbiamo raggiunto livelli di tutela della salute notevoli in tutte le regioni italiane, peraltro con una spesa tra le più basse dei paesi Ocse in Europa. È veramente un sistema che moltiplica i risultati.
Però noi potremmo immaginare oggi ipotesi di organizzazioni diverse, che possono dare ulteriori risultati. Si può avviare una riorganizzazione del sistema, un miglioramento è un’aspirazione di tutti. Ogni cittadino pensa di voler essere curato dal miglior specialista presente in Italia. Perché non pensare a una dimensione sovra regionale dove circolano i professionisti e che superi le realtà territoriali assicurando a tutti il massimo dell’efficacia degli interventi?
Bisogna avviare una grande riflessione su questo servizio sanitario nazionale e sull’evoluzione che potrebbe avere. Immagino un’assistenza non più territoriale ma sovra regionale. In cui le reti di eccellenza diventano fluide.