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Riuscire ad abortire in Italia non è solo una questione di obiezione di coscienza

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Un quadro della situazione italiana sull'interruzione di gravidanza con le testimonianze di medici obiettori e non obiettori sui dati e sulle difficoltà delle donne

L’aborto in Italia è regolato dalla Legge 194 approvata, a tutela delle donne, nel 1978. Prima di allora, l’interruzione volontaria di gravidanza era considerata un reato penale.

Tramite questa legge si è stabilito che una donna può effettuare l’interruzione volontaria di gravidanza in una struttura pubblica entro i primi 90 giorni, entro il quarto o quinto mese se si tratta di aborto terapeutico.

Dopo il colloquio, il medico rilascia un certificato ed è prevista una pausa di riflessione di sette giorni, per valutare con calma se procedere o meno con l’interruzione.

I metodi per procedere con l’aborto sono due: tramite intervento in una struttura pubblica, o con la pillola RU-486, un trattamento non invasivo che prevede, tramite l’assunzione della pillola e la reazione chimica ad essa dovuta, il distacco del feto dall’utero.

L’aborto terapeutico

Secondo la legge l’interruzione di gravidanza si pratica anche dopo il decorrere dei novanta giorni canonici per due casi specifici:

Quando la gravidanza e il parto comportano un grave pericolo per la vita della donna o quando sono presenti processi patologici, compresi quelli relativi a malformazioni o malattie del nascituro, che determinano un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.

Abortire in Italia

In base alla relazione annuale del Ministero della Salute sulla legge 194 relativa all’anno 2016, depositata in Parlamento l’11 gennaio 2017, la percentuale di medici ginecologi obiettori in Italia è salita al 71 per cento.

Un dato che sembra stabilizzarsi. “A livello nazionale si è passati dal 70,5 per cento nel 2015 e al 70,9 per cento nel 2016”, si legge nel documento.

Un aumento si è registrato anche tra gli anestesisti obiettori: più 1,3 per cento, passando dal 47,5 al 48,8 per cento.

Forti differenze tra regioni: in Molise si raggiunge il 96,6 per cento tra i ginecologi, in Basilicata l’88,1 per cento, in Puglia l’86,1 per cento, in Abruzzo l’85,2.

L’11 aprile 2016, il Comitato europeo dei diritti sociali, un organismo del Consiglio d’Europa, ha condannato l’Italia per aver violato il diritto alla salute delle donne che vogliono abortire, riconoscendo che esse incontrano “notevoli difficoltà” nell’accesso ai servizi d’interruzione di gravidanza, anche per l’alto numero di medici obiettori di coscienza.

Elisabetta Canitano – medico non obiettore e presidente dell’associazione “Vita di Donna”

“Vita di Donna” è l’associazione no profit che da circa 12 anni fornisce gratis consulenze, assistenza telefonica e via mail per qualsiasi problema di salute della donna, gestisce un ambulatorio per visite urgenti e offre informazioni su dove rivolgersi nella sanità pubblica per qualsiasi aspetto della salute e della sessualità al femminile.

La dottoressa Elisabetta Canitano è presidente dell’organizzazione che ogni giorno riceve telefonate e richieste da tutta Italia ed è una ginecologa non obiettrice di coscienza che da oltre 20 anni si occupa di interruzioni di gravidanza.

Cosa determina la scelta di una donna di interrompere la gravidanza

“Le donne sono diverse, quelle che noi pensiamo più forzate ad abortire sono sicuramente le giovani donne senza un lavoro fisso, le famose “precarie”. Si parla delle “grandi costrette”, quando ci si riferisce a quelle ragazza che, ad esempio, vivono in una coppia priva di possibilità economiche, o che d’improvviso si trovano ad affrontare l’indigenza”, spiega la dottoressa Canitano.

L’assistenza in Italia

 “L’Italia funziona a macchia di leopardo, dipende da dove si abita: dove i consultori funzionano meglio le donne vengono accolte, ascoltate e possono parlare della loro situazione. Purtroppo non esiste un criterio oggi”, racconta Canitano, “la sanità pubblica è affidata a sé stessa e l’unico riferimento è ormai il pareggio di bilancio. L’unico obiettivo sanitario è l’abbattimento delle liste d’attesa che è il contrario di una sanità efficiente e favorisce il guadagno iniquo dei privati”.

Le donne che chiedono aiuto alle associazioni

Secondo la dottoressa Canitano moltissime donne non riescono ad abortire nella propria regione di appartenenza e chiedono aiuto ad associazioni come Vita di Donna: “Stiamo trattando con una donna del sud Italia che ha 48 ore per abortire e nella sua città di origine non ci riesce. Ma la medesima situazione si è replicata per donne provenienti dalla Sicilia, dalla Campania. Se nella città o paese di origine di una paziente si praticano solo tre aborti al mese, la stessa è costretta ad andare altrove. L’ospedale non va incontro alle necessità”.

Il conflitto Chiesa-mondo scientifico

“I rettori cattolici tentano di mantenere il potere sui punti nascita laici. Le donne che hanno più difficoltà sono quelle che devono fare l’aborto terapeutico e dato che la comunità cattolica è particolarmente feroce contro questo tipo di aborto, sembra quasi alle volte si faccia di tutto per far raggiungere alle donne il tetto temporale per non poterlo più fare in Italia. Abbiamo avuto il caso di una ragazza di 18 anni che aspettava un bambino con una grave malformazione, siamo riusciti a mandarla in Francia dove ha usufruito del servizio sanitario francese”.

Il paradosso

“Mentre aumentano le tecniche per le diagnosi neonatali, di contro non esiste un’assistenza per chi decide di interrompere la gravidanza per motivi terapeutici. I medici obiettori più onesti chiamano un collega non obiettore, gli altri fanno fare molti accertamenti, fino a far scadere i tempi”.

Beatrice Brignone – deputata della Camera del gruppo misto “Alternativa Libera-Possibile”

 Il 23 febbraio 2016, Beatrice Brignone insieme a Giuseppe Civati, ha proposto alcune modifiche alla legge 194. Il dibattito su tali modifiche è al momento fermo e assegnato alla XII Commissione Affari Sociali.

Le modifiche proposte

 La deputata spiega a TPI: “Non vogliamo stravolgere completamente la 194, vogliamo riaprire il dibattito e prevedere almeno il 50 per cento di medici non obiettori garantiti in tutte le strutture sanitarie, ipotizzando delle modalità di mobilità interna, molti sono i casi di medici assunti come non obiettori che lo diventano in un secondo momento, alcuni lo fanno anche per necessità dato anche il mobbing molto pressante”.

Le difficoltà italiane

Le difficoltà italiane sono da attribuirsi, secondo la Brignone, anche allo smantellamento dei consultori: “Erano un sostegno alle donne ad una maternità consapevole e sana, mentalmente e fisicamente, e sono stati aggrediti progressivamente nel corso del tempo. Renata Polverini (ex presidente regione Lazio) li chiamava gli ‘abortifici’. Sono venuti a mancare tutti i servizi, dalla contraccezione, all’accompagnamento post parto, all’informazione”.

“Nelle Marche ci sono punte del 90-100 per cento di obiezione”, denuncia la deputata, “la situazione nei fatti è l’impossibilità di vedersi garantita una legge dello stato, un diritto alla salute e tutto quello che ne consegue, come la necessità di andare all’estero: c’è un clima di difficoltà anche per i medici non obiettori che ormai lavorano solo per praticare interruzioni di gravidanza, ma sono ginecologi che vorrebbero anche compiere il loro lavoro a 360 gradi”.

I costi della mancata assistenza

Le modifiche proposte dai deputati sono state accompagnate anche da un’interrogazione parlamentare sui costi sociali della mancata assistenza alle gestanti che intendono interrompere la gravidanza: “Sappiamo che bisogna chiamare medici da altri ospedali per garantire quel servizio, ma quanto grava realmente l’obiezione di coscienza sul sistema sanitario nazionale?”.

Filippo Maria Boscia – presidente nazionale dell’associazione Medici cattolici italiani

Secondo il dottor Boscia, professore di ginecologia e ostetricia dell’Università di Bari e medico obiettore, “l’istituto dell’obiezione di coscienza è intoccabile per chi esercita la professione di medico ed è previsto anche per la sperimentazione o il servizio militare”.

“La questione è innanzitutto etica, morale e sociale”, spiega il presidente, “è un preciso dovere morale la posizione che si assume nei confronti dell’embrione: accogliere, tutelare e promuovere la vita umana è una responsabilità che i medici obiettori si assumono”.

La controversia sui dati

Il dottor Boscia sostiene che la questione non riguardi il numero di aborti praticati, ma l’organizzazione nazionale manchevole di aver istituito un giusto assetto in grado di ottimizzare il lavoro dei medici non obiettori: “Si continua ad abortire eccome, nessuno si preoccupa che siamo entrati in una questione medica complessa e che l’intento che si sta portando avanti è da condannare. Ogni medico non obiettore pratica almeno un aborto alla settimana. Se gli ospedali pubblici fossero organizzato in modo più efficiente e chiamassero a lavorare anche i medici dai consultori non si avrebbero questi problemi”.

L’aborto terapeutico

Boscia, parlando anche a nome dell’associazione, asserisce: “Chiediamo un bilanciamento dei diritti: gli aborti cosiddetti ‘terapeutici’ sono tantissimi e in numero crescente su feti ormai grandi quando queste anomalie o malformazioni riscontrate potrebbero essere risolte tramite interventi e terapie. Le sale operatorie per gli interventi di questo tipo sono ormai vuote ma abbiamo imboccato una strada irresponsabile, non possiamo spingere oltre modo quella che chiamo una ‘licenza di uccidere per tutte le donne'”.

Il professor Boscia definisce l’aborto un’ “eutanasia pre-natale, un segno di inciviltà. I promotori di ulteriori modifiche alla legge che già di per sé non è equilibrata non puntano a diritti civili ma a diritti di inciviltà. Mi chiedo invece cosa abbiano fatto i politici in 30 anni dalla promulgazione della legge per migliorare l’informazione”.

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