50 lesbiche italiane firmano un appello contro l’utero in affitto
Il documento prende una posizione molto forte a sfavore della cosiddetta maternità surrogata, che finora era sempre stata difesa da larga parte del mondo lgbt
È stata fonte di ampio dibattito in ambito politico e scientifico
l’iniziativa di 50 donne omosessuali italiane che due giorni fa hanno firmato e
diffuso un appello per opporsi alla pratica del cosiddetto utero in affitto.
Nota anche come gpa,
ovvero “gestazione per altri”, si intende con queste definizioni la
possibilità, per ora illegale in Italia ma consentita in altri paesi, di
ricorrere a una “madre surrogata” che porti a termine la gestazione di un
bambino per conto di una coppia impossibilitata ad avere figli, e che sia
disposta ad affidare loro il nascituro subito dopo il parto.
In alcuni casi si tratta di un atto di generosità a titolo
gratuito, in altri è invece previsto un compenso economico.
In Italia l’articolo 12 della legge n. 40 del 2004 (Norme in
materia di procreazione medicalmente assistita) pone il divieto assoluto del
ricorso alla surrogazione di maternità, nonché alla sua organizzazione o
pubblicizzazione. In caso di violazione del divieto, è prevista una reclusione
da tre mesi a due anni e una multa da 600mila a un milione di euro.
A questo proposito, lo scorso 27 gennaio 2015 è intervenuta
la Corte europea dei diritti dell’uomo che, nel pronunciarsi sul caso Paradiso
e Campanelli contro Italia, ha condannato il nostro paese mettendo un punto fermo
sul riconoscimento legale dei figli nati da madre surrogata.
In quell’occasione, l’Italia si era rifiutata di trascrivere
l’atto di nascita di un bambino partorito da madre surrogata in Russia e ne
aveva imposto l’affidamento ai servizi sociali dopo i primi sei mesi di
convivenza con i genitori committenti.
Grazie alla decisione della Corte, chiunque acceda alle
tecniche di fecondazione assistita all’estero – compresa la pratica della
surrogazione di maternità – ha il pieno diritto di essere riconosciuto come
genitore legittimo anche in Italia, pur non avendo alcun legame biologico con
il figlio.
L’appello delle 50 donne sta facendo discutere diverse voci
della comunità lgbt, poiché finora le prese di posizione erano state decisamente a
favore della maternità surrogata, e ha infatti già raccolto consensi nelle aree
cattoliche della politica italiana.
Questo il testo dell’appello:
Lesbiche contro la
GPA: Nessun regolamento sul corpo delle donne
La maternità surrogata, detta “gestazione per altri” (GPA),
praticata in alcuni paesi, è la messa a disposizione del corpo di una donna che
genera bambini su commissione.
Solitamente si impiantano nell’utero delle madri surrogate
embrioni di ovociti prelevati da altre donne, al fine di recidere il legame
genetico tra la gestante e chi nascerà. Chi organizza questa attività spera
così di recidere anche il legame affettivo tra madre surrogata e neonato/a,
come se il legame dipendesse dal codice genetico e non dalla gravidanza e dal
parto. Si tratta di metodiche invasive e pericolose per la salute materna su cui si sorvola, così come si tace del
fatto che di norma si impedisce l’allattamento al seno del/neonato/a per
interrompere l’attaccamento.
Lungi dall’essere un generoso gesto individuale questa
pratica sociale è limitata ai pochi paesi che hanno introdotto la validità del
contratto di surrogazione, proposto da imprese che si occupano di riproduzione
umana in un sistema organizzato che comprende cliniche, medici, avvocati,
agenzie, tutti mossi dal proprio interesse monetario. Nella maternità surrogata
non ci sono né doni né donatrici, ma solo affari e attività lucrative promosse
dal desiderio genitoriale di persone del primo mondo.
Questo sistema ha bisogno di donne come mezzi di produzione,
in modo che la gravidanza e il parto diventino un mestiere (nemmeno
riconosciuto come tale, in nessun luogo) e i neonati dei prodotti con un valore
di scambio. L’invasione del mercato in tutti gli ambiti della vita – sanità,
istruzione, servizi una volta detti pubblici – con la globalizzazione rischia
così di arrivare alla riproduzione umana. Diciamo no a prestazioni lavorative
che invadono il nostro stesso corpo e mercificano un nuovo essere umano, che
diventa il prodotto della gravidanza.
Certe donne acconsentono a impegnarsi in tale contratto che
aliena la loro salute, la loro vita e la loro persona (ad esempio attribuendo
la decisione su eventuali aborti al medico che risponde ai committenti) sotto
pressioni multiple: i rapporti di dominazione famigliari, sessisti, economici,
geopolitici, e la sempreverde mistica della maternità – questa volta per altri
– con la glorificazione dell’autosacrificio femminile, che rende felici i committenti, molto più spesso
eterosessuali, in minore proporzione gay. Le madri surrogate infatti
privilegiano il proprio rapporto con i committenti a quello con la loro creatura
– rimanendo comunque prive di diritti rispetto alla frequentazione o
all’informazione sul futuro dei figli che hanno affidato ad altri.
Non è accettabile diventare madre per altri obbligate da un
contratto né seguendo le norme di regolamenti che normalizzano questa pratica
avendo come conseguenza ultima la creazione di una sottoclasse di fattrici, che
non possono considerare propria la creatura il cui sviluppo nutrono, anche con
l’influenza epigenetica.
I neonati nati da contratto sono programmati per essere
separati dalla madre alla nascita, non per cause di forza maggiore come quando
la madre viene a mancare o decide di non riconoscerli causandone la messa in
adozione, ma in modo predeterminato, togliendo loro la fonte ottimale di
nutrimento e interrompendo la loro relazione privilegiata con la donna che li
ha generati, fonte anche di rassicurazione.
Le convenzioni internazionali come la Convenzione ONU sui
diritti del bambino (Stoccolma 1989) e la Convenzione sull’adozione
internazionale (l’Aja 1993) garantiscono la continuità della vita familiare,
cioè il diritto dell’infante a stare con la donna che lo ha partorito (cioè la
madre), cui si può derogare solo nelle adozioni.
La convenzione del Consiglio d’Europa sulla biomedicina
(Oviedo 1997) rende inoltre indisponibili al profitto le parti prelevate del
corpo umano, come ad esempio gli ovociti.
Di conseguenza, in nome dell’autodeterminazione delle donne
e dei diritti dei neonati, noi, firmatarie della dichiarazione:
– rifiutiamo la mercificazione delle capacità riproduttive
delle donne;
– rifiutiamo la mercificazione dei bambini;
– chiediamo a tutti i paesi di mantenere la norma di
elementare buon senso per cui la madre legale è colei che ha partorito e non la firmataria
di un contratto né l’origine dell’ovocita;
– chiediamo a tutti i Paesi di rispettare le convenzioni
internazionali per la protezione dei diritti umani e del bambino di cui sono
firmatari e di opporsi fermamente a tutte le forme di legalizzazione della
maternità surrogata sul piano nazionale e internazionale, abolendo le (poche) leggi che
l’hanno introdotta;
Le prime 50 firme:
1. Lorenza Accorsi, attivista e disegnatrice di architettura
e arredamento
2. Claudia Barilla, La Porta
3. Edda Billi, lesbofemminista
4. Svetlana Blokhina, ingegnere
5. M. Pia Brancadori, docente di filosofia, Cagliari
6. Cinzia Bucchioni, bibliotecaria
7. Giovanna Camertoni, operatrice Centro antiviolenza
8. Paola Cavallin, autrice e attrice di Solo queer shows
9. Alessandra Cenni, scrittrice
10. Anna Chiodi, pediatra di famiglia, attivista in Arcilesbica
11. Lucilla Ciambotti, fisioterapista
12. Antonia Ciavarella, bibliotecaria e attivista
13. Yvette Corincigh, attivista
14. Ana Cuenca, La Porta
15. Eleonora Dall’Ovo, insegnante e giornalista di Radio
Popolare
16. Daniela Danna, ricercatrice in scienze sociali
17. Teresa
de Lauretis, Distinguished Professor of the History of Consciousness,
University of
California, Santa Cruz www.teresadelauretis.com
18. Amalia dell’Aquila, naturopata e insegnante di danza
19. Rosaria D’Emilio, insegnante
20. Sabrina Di Lenardo, educatrice
21. Silvia Dradi, responsabile Comunità di accoglienza
minori
22. Gloria Fenzi, danzattrice
23. Flavia Franceschini, femminista e attivista lesbica
24. Raffaella Gallerati, femminista
25. Lucia Giansiracusa, attivista
26. Cristina Gramolini, insegnante e attivista
27. Jacqueline Julien, Bagdam Espace lesbien, Toulouse,
Francia
28. La Carlina (Carla Benvenuti), lesbostar
29. Lucy Lanfranconi, impiegata
30. Rosa Maria Lettieri, imprenditrice
31. Satia Marchese Daelli, consulente direzionale sui temi
della responsabilità sociale d’impresa
32. Carmela Mendola, medico
33. Cristina Moretti, attivista
34. Alessandra Novelli, Prato
35. Rosanna Palla manager artistico/pubblicitaria, attivista
femminista
36. Mariagrazia Pecoraro, insegnante e artista
37. Daniela Pellegrini, 60 anni di impegno politico nel
movimento delle donne
38. Marcella Pirrone, avvocata
39. Chantal Podio, psicoterapeuta,responsabile del progetto
“Uomini non più violenti si diventa”
40. Francesca Polo, editrice e attivista di ArciLesbica
41. Valeria Santini, project & event manager e attivista
di Azione Gay e Lesbica
42. Simonetta Spinelli, insegnante in pensione, militante
lesbo-femminista
43. Annarita Silingardi, commerciante
44. Anna Maria Socci, redattrice giuridica
45. Mafalda Stasi, sociologa, Università di Coventry
46. Maria Elisabetta Vendemia, insegnante
47. Luisa Vicinelli, libera ricercatrice di studi delle
donne
48. Stella Zaltieri Pirola attivista
49. Anna Zani, bibliotecaria
50. Tu?