Viaggio nella guerra dimenticata dello Yemen: nel nord colpito dai bombardamenti
La quinta tappa del percorso di Laura Silvia Battaglia in Yemen, dove la guerra tra houthi e lealisti ha provocato la morte di quasi 10mila persone secondo i dati Onu
Quando infili la strada statale che dalla capitale dello Yemen, Sanaa, ti porta verso nord, sai bene che sei sotto il tiro dei bombardamenti. Nessuno sa quando e come arriveranno, ma sai che è possibile.
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Fino a un anno dall’inizio della guerra, erano intensi e terribili. Arrivavano di notte, verso le tre e colpivano soprattutto obiettivi militari. Poi si son fatti assai più radi ma sono diventati insidiosi. Hanno colpito di giorno, in orari imprevedibili, e si sono scatenati su stazioni di gasolio, auto e bus in movimento, scuole abbarbicate sulle colline, matrimoni e, soprattutto, funerali.
Andare verso nord in Yemen, oggi, costringe a un esercizio di pazienza non indifferente e ad assumere l’atteggiamento, così comune da queste parti, che io chiamo Inshallah mood e che in Italia verrebbe definito un comportamento alla “spera in Dio”.
Il paesaggio è splendido: colline e montagne si susseguono in un progressivo innalzamento dell’altitudine. Il cielo è azzurro, di un azzurro mai visto altrove. L’aria tersa, pulita. Le auto sono pochissime. Le case sono di pietra arenaria.
Ogni tanto si innalza una torre. Più spesso si stagliano campi rettangolari coltivati ad alberi da frutto o qat, una pianta da cui si ricava una droga molto diffusa in Yemen. Bambini con abiti dai colori sgargianti pascolano piccoli gruppi di capre.
È lo Yemen delle cartoline: quel Medioevo perenne e un po’ misterioso, fatto di campagne e antiche rovine, dove vorresti fermarti per un po’, lontano dai rumori e dalle frenesie della città.
Il paesaggio cambia improvvisamente nella città di Raydah, dove un mercato brulicante di gente anima l’unica via principale. Non c’è spazio per passare con l’auto e uomini, donne, bambini, animali, moto, macchine e furgoni sono insieme aggrovigliati in un’unica amalgama vociante.
Dalla nostra posizione non riusciamo nemmeno a distinguere le merci. Il mercato di Raydah è l’unico in tutta la valle. Qui convergono soprattutto pastori, allevatori e agricoltori per fare compravendita di ortofrutta e bestiame.
All’uscita del Paese, si staglia il secondo campo profughi che si può incontrare viaggiando da Sanaa a qui. È un agglomerato di centinaia di tende approntate dall’organizzazione Onu per i rifugiati (Unhcr) per far fronte all’emergenza dei dispersi interni dalle zone ancora più a nord (Abs, Sadaa), bombardate in modo intenso per un anno intero.
Ci viene detto di non avvicinarci: gli abitanti sono molto aggressivi. Di fatto, è in corso un contenzioso tra il proprietario del campo e la municipalità della città di Khamer, che ha chiesto all’uomo la disponibilità alla realizzazione della struttura temporanea. Ma il proprietario non ci sta più, dopo un anno, e le tensioni sono all’ordine del giorno. La mancanza di solidarietà e il divario tra ricchi e poveri è una triste storia che si ripete dappertutto, nel mondo.
A Khamer è attivo l’unico ospedale dell’ong Medici senza Frontiere (Msf) dell’area nord. Esso raccoglie i pazienti provenienti dalla zona e anche da altre strutture Msf già bombardate. È un ospedale piccolo, essenziale. Non ci sono grandi forniture ma almeno non mancano l’ossigeno, le medicine, l’assistenza sanitaria. Come altrove, le sezioni più accurate sono la pediatria, il reparto neonatale e la sezione sulla malnutrizione.
La dottoressa Arwa Ahmed Naser è molto impegnata nella sua attività in ospedale. Ci tiene molto a farci notare come, da queste parti, sono più quelli che non riescono a raggiungere la struttura e muoiono in casa, rispetto a quelli che vanno nell’ospedale. “Il carburante costa, le medicine costano, gli uomini non lavorano più: un disastro”.
Per questo Msf ha attivato un sistema di cliniche mobili: il principio, elementare, è che se Maometto non va alla montagna, la montagna va a Maometto. Così, ogni mattina, un manipolo di operatori umanitari salgono sui pick-up e si dirigono in ogni direzione nelle campagne intorno a Khamer.
Al momento della distribuzione di aiuti, vaccini e altre necessità sanitarie accorrono in tanti. Non solo i dispersi dalle aree di Saada, che oggi vivono nei campi; ma anche coloro che sono autoctoni ma che non si possono muovere e dunque non hanno accesso sanitario.
Molti si presentano alle unità mobili per la prima volta e credono di non avere un problema vero e proprio. Poi ne realizzano la gravità e si convincono a tentare il tentabile per raggiungere Khamer.
Come Arwa, che ha avuto la settima bambina e da quando è nata non riesce ad allattarla, né al seno né con il biberon. Arwa non capiva. Poi se n’è accorta facendola visitare: la piccola ha una strana malformazione in bocca che le fa male e non l’aiuta a mangiare.
A Khamer le hanno dato almeno delle flebo nutrizionali. Forse la figlia di Arwa ce la farà, dicono i medici. Per ora, la piccola fa l’unica cosa che può per farsi sentire: piange fortissimo.
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