Ecco come l’Ungheria chiude le porte in faccia ai migranti
Alessandro Pilo ha intervistato Zoltán Kovács, portavoce del premier Orbán, per capire le ragioni del referendum che potrebbe rendere più aspra la spaccatura nell’Ue
Il 2 ottobre si vota in Ungheria per il referendum sul sistema delle quote dei migranti fortemente voluto dal premier Orbán. I cittadini saranno invitati a rispondere al seguente quesito: “Volete che l’Unione Europea decreti una rilocalizzazione obbligatoria dei cittadini non ungheresi in Ungheria senza l’approvazione del parlamento ungherese?” Secondo gli ultimi sondaggi, il NO alle quote è attestato intorno al 71 per cento, mentre il 13 per cento degli ungheresi ha intenzione di votare SÌ e il 16 per cento è indeciso.
Ho incontrato nel suo ufficio a Budapest Zoltán Kovács, portavoce del premier Orbán, per capire le ragioni di un referendum che potrebbe rendere ancora più aspra la spaccatura all’interno dell’Unione europea tra gli stati fondatori e il blocco dei paesi dell’est, compatti nel dire no alla rilocalizzazione dei profughi.
Il premier Orbán ha affermato che il sistema delle quote “ridisegnerebbe l’identità etnica, culturale e religiosa dell’Ungheria, cosa che nessun organismo dell’Ue ha il diritto di fare”. Tuttavia all’Ungheria viene richiesto di ospitare meno di 1300 profughi. Crede che questo numero metterebbe in pericolo la cultura e i valori ungheresi?
Quei numeri non sono più attuali, la pressione sulle frontiere europee non accenna a diminuire e se accettiamo questo sistema, la Commissione europea ci costringerà in futuro ad accoglierne molti di più, nell’ordine delle decine di migliaia.
Ospitare migranti non può essere un obbligo, soprattutto per quei paesi che non vogliono immigrati e non li considerano una risorsa. Se altri paesi vogliono una società multiculturale con ghetti e leggi parallele, non ci opporremo al loro diritto di costruirla, ma resisteremo al tentativo di imporcela.
Bisogna prendere atto che l’integrazione nell’Europa occidentale non ha avuto successo. Certo ci sono esempi positivi, ma nella stragrande maggioranza questi tentativi sono falliti. Chiunque vada in città come Parigi, Londra, Stoccolma o Vienna, dove il tasso di musulmani raggiunge il 10 per cento della popolazione, vedrà che questi cittadini non si integrano perché non vogliono. Le loro tradizioni e la loro cultura non sono compatibili con i valori europei.
Molti accusano il governo ungherese di comportarsi come se l’emergenza rifugiati non esistesse, lasciando agli altri stati membri il compito di risolverla.
Un anno fa il premier Orbán ha messo sul tavolo una proposta di dieci punti per la gestione della crisi, chiamata Schengen 2.0. Il suo piano prevedeva la raccolta delle richieste d’asilo fuori dal territorio dell’Unione, all’interno di hotspot con condizioni di vita dignitose, possibilmente in paesi della stessa area geografica dei profughi. Dobbiamo permettere ai rifugiati di stare più vicini a casa loro, non ospitarli a 5000 chilometri di distanza.
Schengen 2.0 prevedeva inoltre il rimpatrio verso i paesi di transito dei migranti economici e di tutti coloro entrati illegalmente nel territorio dell’Ue. Non si dimentichi che prima di raggiungere i nostri confini i profughi che ambiscono ad ottenere lo status di rifugiati hanno già attraversato vari paesi sicuri, e nel momento in cui vogliono decidere dove andare a vivere, diventano dei migranti economici.
Il piano del premier Orbán metteva inoltre in chiaro che la rilocalizzazione dei profughi non può violare la sovranità dei singoli paesi membri e può avvenire solo su base volontaria.
La Commissione europea intende multare i paesi che rifiuteranno le quote, la somma ammonta a 250.000 per rifugiato. Nel caso dell’Ungheria, il conto si aggirerebbe intorno ai 232 milioni di euro. Mentre il primo ministro italiano Matteo Renzi lo scorso febbraio ha proposto di ridurre o bloccare i fondi europei dei paesi che si oppongono alle quote. Cosa ne pensa?
Chi ha deciso quei numeri? Come sono arrivati a stabilire quella somma? È questo il costo dell’integrazione? Questa proposta di fatto disumanizza i migranti, visto che mette una taglia sulla loro testa, equivalente a 40 anni dello stipendio medio di un ungherese.
Tenga conto inoltre che gli immigrati arrivati in Europa non vogliono stare in Ungheria, vogliono andare in Germania o in Svezia, dove stipendi e sussidi disoccupazione sono più alti. Qualsiasi cosa si faccia, vorranno tornarci. Come li convinciamo ad andare in Slovenia o in Lettonia? Mettere in pratica il sistema delle quote è un’illusione e farlo attraverso delle minacce è un ricatto politico.
L’Ungheria contribuisce con meno dell’1 per cento al budget dell’Unione, ma in cambio l’Ue contribuisce al 6,57 per cento del Pil ungherese. C’è chi sostiene che i vantaggi non possono essere separati dai doveri e le responsabilità.
Quando abbiamo aderito all’Unione europea, abbiamo aperto il nostro mercato, la nostra economia e la nostra società. Questa apertura e le tante privatizzazioni hanno portato a enormi guadagni per le compagnie e le multinazionali europee, ma se facessimo un calcolo preciso dei vantaggi e dei benefici per il paese, forse il saldo non è così positivo. In altre parole quei fondi non sono assolutamente un regalo e di certo non hanno niente a che vedere con la solidarietà.
Centinaia di migliaia di ungheresi fuggirono nel ’56 dai carri armati sovietici e trovarono in Occidente solidarietà e supporto. Anche per questo motivo, molti cittadini europei sono rimasti perplessi davanti alla risposta ungherese all’emergenza rifugiati.
Chi fa questi paragoni dimostra una grande ignoranza in materia storica, visto che paragona una mela con un’arancia. Non si può paragonare la migrazione intercontinentale di una massa di persone estranee ai nostri valori e alla nostra cultura, con la fuga di europei che in quel momento cercavano di fuggire dal comunismo e raggiungere il resto d’Europa.
Gli ungheresi poi rispettarono le regole, non gli era permesso di muoversi liberamente o decidere dove andare, infatti accettarono le destinazioni assegnate senza protestare. Mentre le persone che stanno entrando attualmente nell’UE non vogliono essere identificate, non seguono le nostre regole, di fatto non sappiamo nemmeno chi sono visto che spesso si presentano senza documenti.
Eppure alcune città canadesi si dichiararono contrarie ad ospitare rifugiati ungheresi, considerati inadatti all’integrazione, mentre in vari campi d’accoglienza, a causa dell’affollamento e dello stress, i rifugiati ungheresi furono considerati problematici e aggressivi. A fronte della grande solidarietà internazionale mostrata nel ‘56, anche quell’ondata di rifugiati presentò problemi di ordine pubblico e creò dibattiti sul multiculturalismo
Se scava troverà delle similitudini, ma l’essenza di questi due fenomeni migratori è totalmente diversa.
Tra i 28 paesi membri dell’Unione europea, gli ungheresi guadagnano il quinto salario medio più basso, e secondo il Centro di Statistica Nazionale in sei anni l’emigrazione è sestuplicata. Attualmente decine di migliaia di posti di lavoro in Ungheria sono scoperti. L’immigrazione può essere una soluzione?
Non di certo la migrazione intercontinentale, non è così che vogliamo risolvere la mancanza di manodopera o un basso tasso di natalità. Ovviamente non siamo in grado di offrire gli stessi salari della Germania o del Regno Unito, ma stiamo cercando di risolvere questi problemi attuando politiche familiari e investendo sulla formazione. Siamo già stati in grado di ridurre la disoccupazione dall’11 per cento al 5 per cento.
Ma nell’immediato, come pensate di ovviare alla mancanza di manodopera?
Non si dimentichi che l’Ungheria confina con la regione carpatica e per alcuni di quei paesi, mi viene in mente l’Ucraina, i nostri salari sono già competitivi. E nei paesi confinanti con l’Ungheria abitano circa tre milioni di ungheresi. Attrarre lavoratori da queste zone rientra sicuramente nei nostri piani.