Il Sud Sudan è sull’orlo di una catastrofe umanitaria
Secondo l’Onu ci sono tutte le condizioni per un genocidio nella nazione più giovane del mondo, dopo quattro anni di guerra civile e il fallimento dell'accordo di pace
Pulizia etnica, villaggi incendiati, fame e stupri di massa, così diffusi da essere diventati la norma: ecco cosa hanno trovato gli esperti delle Nazioni Unite durante un viaggio di dieci giorni compiuto in Sud Sudan a novembre 2016 per verificare la situazione nel paese africano.
La nazione più giovane del mondo è “sull’orlo di una catastrofe”, paragonabile agli orrori del genocidio del Ruanda nel 1994. Durante quel conflitto, in cento giorni, furono sterminate circa 800mila persone, di fronte allo sguardo impassibile del mondo, incapace di fermare lo spargimento di sangue.
L’ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton ha dichiarato nel 2014 che la decisione di non intervenire in Ruanda fu uno dei più grandi rimpianti del suo mandato.
Dall’inizio della guerra civile nel dicembre del 2013 in Sud Sudan sono state uccise almeno 50mila persone, più di 2,3 milioni sono state costrette a lasciare le proprie abitazioni e circa 6 milioni sono a rischio di fame. Il 70 per cento delle scuole è stato chiuso a causa dei combattimenti.
I venti anni di guerra civile che insanguinarono il Sudan
Il Sud Sudan è una nazione indipendente dal 2011. Per oltre 22 anni, una brutale guerra civile tra la popolazione a maggioranza musulmana del nord e i cristiani del sud ha insanguinato il Sudan.
Nel 2005 un accordo di pace fu raggiunto tra il Movimento per la liberazione del Sudan e il presidente del Sudan Omar al-Bashir, grazie all’impegno diplomatico delle potenze occidentali, in particolare degli Stati Uniti, dove per anni i gruppi cristiani avevano esercitato pressioni sul Congresso.
L’accordo di pace prevedeva un referendum per fare scegliere ai cittadini se il Sudan dovesse dividersi in due nazioni. Nel gennaio del 2011 si è svolta la consultazione popolare e il 99 per cento dei sud sudanesi votò a favore dell’indipendenza.
Il mondo festeggiò la nascita del nuovo stato, ma presto lo scenario iniziò a precipitare. Per raggiungere l’accordo di pace e l’obiettivo dell’indipendenza, la diplomazia mise da parte le fratture tra i due principali gruppi etnici della nazione: i dinka e i nuer.
Il neoeletto presidente del Sud Sudan Salva Kiir, dell’etnia dinka, annunciò che l’obiettivo era quello di eliminare le fratture etniche all’interno della nazione e per questo nominò come suo vice Rieck Machar, dell’etnia nuer, accusato di aver guidato nel 1991 il brutale massacro in cui furono uccisi duemila civili dinka nella città di Bor.
Chi sono i leader responsabili del massacro
Le tensioni rimaste latenti vennero in superficie e il clima di unità nazionale durò poco. La guerra civile in Sud Sudan cominciò nel dicembre del 2013, quando soldati fedeli a Kiir, di etnia dinka, iniziarono a perseguitare nella capitale i civili di etnia nuer, scatenando la ribellione dei soldati nuer, che presero le armi con lo scopo di deporre il presidente Kiir, guidati nell’insurrezione dal vice presidente Machar.
In una sola settimana di combattimenti furono uccise mille persone. Machar fu costretto ad abbandonare Juba, la capitale del Sud Sudan, ma con lui si unì parte dell’esercito. Nei tre anni successivi entrambe le parti si sono macchiate di orribili crimini di guerra nei confronti dei civili, inclusi stupri di massa su base etnica e omicidi.
Nell’agosto del 2015 i due contendenti hanno raggiunto un accordo di pace. Un anno dopo la situazione è cambiata, peggiorando.
Il fallimento dell’accordo di pace
Secondo il trattato, Machar doveva rientrare a Juba e assumere nuovamente la carica di vicepresidente. Ma invece di smilitarizzare Juba, il leader dei ribelli ha imposto di entrare nella capitale con le sue truppe come garanzia e protezione.
Il parlamento di transizione non fu in grado di eleggere il presidente, a causa delle divisioni in seno all’assemblea.
Appena pochi mesi dopo la firma, anche Kiir iniziò a boicottare l’accordo di pace. Un punto della risoluzione prevedeva che Machar avesse il governo di due delle dieci regioni della nazione. Ma Kiir la rese inattuabile, dividendo le dieci regioni in 28 provincie.
A questo va aggiunto l’incapacità di affrontare la grave crisi economica del paese. A causa delle spese di guerra del governo, la scomparsa di circa un miliardo di dollari dalla banca centrale e il crollo del prezzo del petrolio, unica ricchezza della nazione, l’inflazione ha superato il 300 per cento, il tasso più alto al mondo.
La moneta si è svalutata del 90 per cento in cinque anni. Dipendenti statali non ricevono lo stipendio da mesi e insegnanti, medici e giudici sono in continuo sciopero.
La situazione attuale
Lo stallo politico ha fatto riesplodere i combattimenti nel nordest del paese, dove le truppe sono ancora schierate. Nel rapporto stilato dagli inviati delle Nazioni Unite si denuncia la presenza delle condizioni per la presenza di un genocidio: incitamento all’odio, repressioni ai danni della libertà di informazione e della società civile e profonde divisioni tra le 64 tribù del Sud Sudan.
Secondo gli osservatori internazionali, il collasso dell’accordo di pace è da attribuirsi all’assenza di effettive sanzioni in caso di violazioni. Pur di mantenere la tregua, persino le Nazioni Unite hanno voltato lo sguardo di fronte a evidenti violazioni.
L’Onu starebbe adesso valutando l’ipotesi di inviare soldati per garantire che il cessate il fuoco e gli accordi siano rispettati, mentre il Congresso degli Stati Uniti sta discutendo per un embargo che impedisca al Sud Sudan di rifornirsi di armi.
Ma anche un intervento della comunità internazionale potrebbe essere insufficiente. Tentare di conciliare due rivali storici in un governo di unità nazionale, con un passato di violenza e corruzione come Kiir e Macher, sembra un’ipotesi destinata al fallimento.
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