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Home » Esteri

Come un candidato che prende meno dell’un per cento può diventare presidente degli Stati Uniti

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Secondo un'analisi statistica esiste una possibilità remota, ma in ogni caso concreta, che l'indipendente Evan McMullin diventi presidente. E non nel modo che immaginate

Manca sempre meno alle elezioni presidenziali statunitensi dell’8 novembre e lo scontro tra i due principali candidati, la democratica Hillary Clinton e il repubblicano Donald Trump, si fa sempre più teso.

Un tale inasprimento di toni può lasciare spaesati gli elettori, rischiando di allontanarli dalle urne o di spingerli a valutare la possibilità di votare candidati minori.

Nonostante i riflettori siano costantemente puntati su Clinton e Trump, ci sono numerosi candidati a sfidare i due nella corsa alla Casa Bianca. Queste figure di secondo piano, forse anche per il clima molto teso della campagna elettorale, potrebbero raccogliere più voti rispetto alle elezioni passate, sebbene nessuno abbia neanche lontanamente i numeri per poter raggiungere la vittoria.

Il libertario Gary Johnson, ad esempio, ha ottenuto al massimo poco più del 10 per cento dei consensi nei sondaggi, una percentuale alta ma molto lontana dal poter mettere in crisi il tradizionale bipartitismo statunitense. Anche la verde Jill Stein difficilmente potrà andare molto oltre il 2 per cento, secondo i dati degli istituti di sondaggio.

Tuttavia, l’esperto di analisi elettorali Nate Silver, specializzato nel calcolo delle probabilità di vittoria in eventi politici e sportivi – che ha saputo prevedere il risultato corretto delle elezioni presidenziali statunitensi in 49 stati su 50 nel 2008 e in tutti e 50 nel 2012 – ha valutato le possibilità di elezione del candidato indipendente Evan McMullin a presidente degli Stati Uniti sul suo sito FiveThirtyEight. Il risultato dell’analisi condotta da Silver è stato sorprendente, perché, per quanto l’elezione del candidato indipendente sia abbastanza improbabile, secondo l’esperto sarebbe tutt’altro che impossibile.

LEGGI ANCHE: Chi è Evan McMullin, il repubblicano che si candida contro Trump

McMullin, ex repubblicano candidatosi fuori dagli schieramenti con il principale obiettivo di attrarre i voti dei conservatori delusi da Trump, non ha alcuna possibilità di arrivare primo, dal momento che, tra le altre cose, non è neanche presente sulla scheda elettorale di tutti gli stati.

Non sarebbe infatti ottenendo il magico numero di 270 grandi elettori che McMullin riuscirebbe a diventare presidente, come avviene normalmente, ma con un meccanismo leggermente diverso e tecnicamente molto complesso.

LEGGI ANCHE: Come funzionano le elezioni presidenziali negli Stati Uniti

L’elezione del presidente degli Stati Uniti è infatti un’elezione semidiretta. Nel momento in cui gli elettori esprimono la propria preferenza per un candidato (ad esempio Clinton o Trump), automaticamente votano anche un certo numero di “grandi elettori” a esso collegati, che variano di stato in stato a seconda della popolazione.

Dunque, se un candidato vince in un determinato stato, i grandi elettori a lui collegati in quel territorio vengono eletti.

Circa un mese dopo le presidenziali, questi grandi elettori sono chiamati a sostenere il proprio candidato esprimendo un voto in assemblea. Quasi sempre la legge li obbliga a riconfermare la persona attraverso la quale sono stati eletti.

Un candidato raggiunge dunque la vittoria non quando ottiene più voti, ma quando ottiene 270 grandi elettori, ovvero la maggioranza assoluta dei 538 grandi elettori presenti in totale nei 50 stati americani.

McMullin però non sarà né il candidato che ottiene più voti, né quello che raggiunge i fatidici 270 grandi elettori. Nonostante questo, però, la legge gli consente comunque una possibilità di elezione.

Ecco quali eventi dovrebbero verificarsi per rendere concreta questa eventualità:

Il primo passaggio per la clamorosa elezione di McMullin è la sua vittoria in uno stato, lo Utah. Si tratta di un territorio storicamente a maggioranza repubblicana, la cui popolazione aderisce prevalentemente alla confessione dei mormoni. In questo stato, i repubblicani ottengono da anni più del 60 per cento dei voti, e nel 2012 il candidato Mitt Romney, che oltre a essere repubblicano è anche mormone, ha addirittura superato il 70 per cento.

Anche McMullin è repubblicano, pur correndo da indipendente, e mormone. In più viene anche dallo Utah, dove Trump non è particolarmente amato, come si evince dal fatto che abbia chiuso terzo le primarie dei repubblicani.

Il più recente sondaggio condotto nello Utah (realizzato da Deseret News) dà Clinton e Trump appaiati al 26 per cento, di pochissimo sopra a McMullin, fermo al 22. Il trionfo del candidato indipendente in questo stato è dunque un fatto possibile, che rappresenterebbe, inoltre, la prima vittoria di un candidato né democratico né repubblicano in uno stato dal 1968.

Il secondo passaggio che renderebbe possibile l’elezione di McMullin è che né Clinton né Trump raggiungano i 270 grandi elettori necessari per diventare presidente. Questa eventualità è meno probabile rispetto al primo passaggio, soprattutto ora che i sondaggi sono molto favorevoli a Clinton. 

Tuttavia, se Trump andasse meglio del previsto, ma perdesse comunque lo Utah, e così i suoi sei grandi elettori, potrebbe non raggiungere il numero di 270 necessario per l’elezione.

Questo scenario, che ritrae un maggior successo del magnate newyorkese rispetto alla rivale, implica che neanche la Clinton otterrebbe la quota di 270 grandi elettori.

Se tutto questo si dovesse verificare, né Trump né Clinton raggiungerebbero la vittoria.

Quindi, se nessuno ha 270 grandi elettori, cosa succede?

A eleggere il 45esimo presidente degli Stati Uniti sarebbe il Congresso, scegliendo tra i candidati che abbiano vinto in almeno uno stato; quindi, in caso si verificassero tutti gli eventi sopra descritti, tra Clinton, Trump e McMullin.

Non sarebbe ogni singolo membro del congresso a votare, ma una delegazione per ciascuno stato, in cui la maggioranza esprime un unico voto a nome di tutto il territorio. Sono dunque necessari per l’elezione i voti di almeno 26 delegazioni, ovvero la maggioranza assoluta dei 50 stati.

Dal momento che l’intera Camera dei rappresentanti e parte del Senato saranno rinnovati l’8 novembre in concomitanza con le elezioni presidenziali, non possiamo sapere quale sarà la nuova composizione del Congresso, e dunque come esso voterà.

Tuttavia, nello scenario delineato finora, in cui né Trump né Clinton ottengono la maggioranza dei grandi elettori, è difficile pensare che i repubblicani vedano drasticamente ridotta l’ampia maggioranza (pari a ben 33 delegazioni) che hanno attualmente in Congresso. Ma potrebbero comunque vederla diminuire.

Non è un segreto, inoltre, che molti membri repubblicani del Congresso, 35 al momento, siano apertamente contrari a Trump, tra cui la maggioranza della delegazione dello Utah e parte di quella del Nevada, e potrebbero non votarlo dovesse verificarsi una situazione del tipo sopra descritto.

Queste chances potrebbero aumentare soprattutto in caso ci fosse un’alternativa diversa da Hillary Clinton, come un altro repubblicano a loro più gradito, per esempio McMullin.

E allora, con i repubblicani divisi e le votazioni che vanno avanti a oltranza, l’unica possibilità per trovare l’unità potrebbe essere rappresentata dal candidato indipendente dello Utah, che risulterebbe così clamorosamente eletto.

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