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Come ha reagito la Silicon Valley al Muslim ban di Trump

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Le principali aziende statunitensi, da Google e Uber, a Facebook e Airbnb, hanno aspramente criticato l'ordine esecutivo del presidente degli Stati Uniti

La Silicon Valley, o almeno gran parte delle aziende che vi hanno sede, si è schierata contro il Muslim ban di Donald Trump, l’ordine esecutivo che impedisce a cittadini di sette paesi a maggioranza musulmana di entrare negli Stati Uniti, a meno che non siano in possesso della green card. 

Il provvedimento di Trump ha gettato nel caos gli aeroporti del paese, ha scatenato proteste in molti stati e la reazione di numerosi leader e organizzazioni internazionali. Ma è la Silicon Valley ad aver reagito nella maniera più vistosa e più concreta. 

Numerosi top manager del settore hi-tech che si erano schierati contro Trump in campagna elettorale, come Tim Cook di Apple e Elon Musk di Tesla, avevano poi espresso la speranza di trovare un terreno comune con l’amministrazione Trump. 

Ma da quando Trump ha annunciato lo scorso 27 gennaio 2017 il blocco immediato dell’ingresso negli Stati Uniti per i cittadini di sette paesi a maggioranza islamica (Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen), le reazioni non si sono fatte attendere. 

La mossa, secondo gli analisti, potrebbe alimentare il supporto per la cosiddetta CalExit, la richiesta di indipendenza della California. Il cosiddetto Golden State ha la più grande quota di immigrati privi di documenti di tutti gli Stati Uniti e ha accolto più rifugiati sirianinel 2016 rispetto a qualsiasi altro stato, il che significa che una percentuale significativa di lavoratori delle aziende della Silicon Valley sono colpiti dal divieto di Trump.

Non sorprende perciò che figure di spicco della Silicon Valley si siano schierate apertamente contro il Muslim ban. Ecco come hanno reagito: 

Google – Il colosso dei motori di ricerca è stata la prima grande azienda a reagire alla notizia. L’amministratore delegato Sundar Pichai ha diffuso un comunicato in cui diceva che 187 dipendenti di Google sono stati direttamente colpiti dal divieto. 

Nella dichiarazione ufficiale, Google ha detto che l’ordine avrebbe “creato ostacoli nel portare grande talenti negli Stati Uniti”, aggiungendo, “continueremo a far valere le nostre opinioni su questi temi a Washington e altrove”. 

La società ha inoltre richiamato circa 100 dei suoi dipendenti dall’estero, al fine di proteggerli dal divieto. Il co-fondatore di Google Sergey Brin si è unito ai manifestanti all’aeroporto di San Francisco: “Sono qui perché sono un rifugiato”, ha dichiarato a Forbes. 

Due giorni dopo il ban, Google ha anche annunciato la creazione di un fondo d’emergenza di 4 milioni di dollari da destinare alla causa dell’immigrazione.

Uber e Lyft – Inizialmente si era diffuso l’hashtag #DeleteUber, “cancellare Uber”, diventato trending topic sui social network per la mancata reazione dell’azienda al divieto di Trump. In rete sono migliaia le foto di utenti che mostravano la schermata per cancellare l’app dal proprio smartphone. La reazione aveva favorito l’azienda rivale Lyft, che fin da subito si è schierata contro il divieto e ha devoluto un milione di dollari al Sindacato per le libertà civili degli Stati Uniti. 

In risposta, e non volendo essere da meno, l’amministratore di Uber Travis Kalanick ha promesso di istituire un fondo da 3 milioni di dollari per la difesa legale di coloro che sono stati colpiti dal “divieto ingiusto di Trump”. “Uber è una comunità. Siamo qui per sostenerci l’un l’altro”, ha scritto Kalanick su Facebook. 

Aibnb – Con un post su Facebook, Brian Chesky, fondatore e amministratore delegato di Airbnb, ha annunciato che la sua compagnia offre alloggi gratuiti per i rifugiati e per i viaggiatori a cui è stato vietato l’ingresso negli Stati Uniti. 

“Abbiamo tre milioni di abitazioni, possiamo senza dubbio trovare un posto dove far stare le persone coinvolte”, ha scritto Chesky.  In seguito all’annuncio, Airbnb ha aperto una pagina online dove gli utenti possono offrire gratuitamente alloggi per aiutare le persone che non possono rientrare sul suolo americano.

Facebook – Il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg, i cui nonni erano immigrati provenienti da Germania, Austria e Polonia, ha scritto in un post pubblico di essere “preoccupato” per l’impatto di ordini esecutivi di Trump. “Siamo una nazione di immigrati, e tutti traiamo vantaggio quando le menti migliori e più brillanti del mondo possono vivere e lavorare qui”, ha detto Zuckerberg. “Spero che troveremo il coraggio e la compassione per unire le persone e rendere questo mondo un posto migliore per tutti”. 

Una ricerca del 2012, intitolata America’s New Immigrant Entrepreneurs: Then and Nowha documentato che il 24,3 per cento delle aziende start-up tecnologiche degli Stati Uniti e il 43,9 per cento di quelle con sede nella Silicon Valley sono state fondate da immigrati. Vivek Wadhwa, coautore della ricerca, scrive sul Washington Post che gli immigrati hanno contribuito per più del 60 per cento delle domande di brevetto depositate presso aziende innovative come Qualcomm, Merck, General Electric e Cisco Systems. 

Numerosi sono gli studi secondo i quali gli immigrati hanno maggiori probabilità di avviare imprese che creano occupazione, non solo in ambito tecnologico. 

Lo stesso Steve Jobs, com’è noto, era il figlio di un immigrato siriano arrivato negli Stati Uniti. È solo uno, il più famoso, di una schiera infinita, di menti brillanti che hanno contribuito al successo delle aziende americane, e che provenivano da altri paesi.

“Che cosa succederebbe se un presidente eletto frustrato bloccasse gli immigrati con passaporto messicano, cinese o indiano?”, si domanda il Washington Post. “Lo scenario, impensabile fino a pochi mesi fa, è oggi del tutto plausibile”.

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