A che gioco gioca la Russia in Siria
Perché il governo russo ha deciso di intervenire in Siria. L'analisi di Davide Tramballi
Il conflitto siriano, avviato verso il suo quinto anno di combattimenti, ha subìto un nuovo, ennesimo sconvolgimento da quando la Russia è intervenuta militarmente in Siria alla fine dello scorso settembre. La discesa in campo di Vladimir Putin, già sostenitore economico e diplomatico della prim’ora del regime di Bashar al-Assad, ha avuto un impatto immediato e forte sugli equilibri della guerra.
Una prima analisi mostra come la campagna di bombardamenti strategici dell’aviazione russa abbia permesso alle truppe lealiste di passare nuovamente all’offensiva nel nord e nel sud del Paese, dopo che queste negli ultimi due anni si erano trovate quasi sempre a difendere e contenere non solo l’avanzata del complesso mosaico delle truppe ribelli, ma soprattutto la dilagante offensiva del sedicente Stato islamico.
Proprio la necessità di opporsi all’Isis è stata la principale motivazione adottata dal Cremlino per giustificare il suo intervento militare agli occhi dell’opinione pubblica russa e internazionale. Tuttavia, uno studio più approfondito delle dinamiche sul fronte di guerra permette di sollevare i primi dubbi su una simile lettura.
Come riporta l’Institute for the Study of War, una delle fonti più affidabili nel registrare l’evoluzione del conflitto sul campo, tra il 30 settembre e il 28 ottobre 2015 l’aviazione russa ha compiuto 32 raid provati (high confidence strikes) cui si sommano 69 ulteriori attacchi rivendicati dal ministero della Difesa russo ma non riscontrati sul campo (low confidence strikes), di cui 28 sarebbero avvenuti solamente tra il 27 e il 28 ottobre).
Di tutti gli attacchi provati, solo quattro avrebbero colpito aree sotto l’influenza dell’Isis, essenzialmente a Raqqa, considerata la capitale de facto del sedicente Stato islamico (Mosca dichiara altri nove raid, senza riscontro fattuale).
Ventotto raid si sono quindi diretti contro le fazioni dell’opposizione moderata, l’Esercito siriano libero, oltre che contro le formazioni salafite e jihadiste opposte al regime, e contro Jabhat al-Nusra, il braccio di al-Qaida in Siria.
Inoltre, i russi si sono concentrati in un’area geografica relativamente limitata a sud-ovest di Aleppo, nella zona di Idlib, proprio dove i lealisti hanno scatenato a inizio ottobre l’offensiva contro i ribelli moderati sostenuti dagli Stati Uniti, oltre che in misura minore più a sud, sempre nelle aree sotto controllo ribelle di Hama e Homs.
Aleppo, la seconda città della Siria, ha un’importanza strategica e ideologica chiave per tutte le forze in campo: oltre a essere fondamentale per il controllo delle vie di comunicazione e approvvigionamento con la Turchia, è qui che in seguito al primo conflitto mondiale venne di fatto creata la Siria, dall’unione dell’omonima provincia con quella di Damasco.
Come ricordato da al-Monitor, a oggi la città è controllata al 60 per cento dai ribelli, sostanzialmente divisi tra gruppi che fanno capo all’Esercito siriano libero, e formazioni riconducibili ai jihadisti di Ansar al-Sharia.
È proprio contro questi ultimi che si sono quindi diretti i raid russi e, dal 16 ottobre, gli attacchi dell’esercito regolare siriano, che controlla i quartieri ovest della città. Solo in un secondo momento e in conseguenza diretta dell’offensiva, dopo il 21 ottobre, le forze pro-regime sono entrate in collisione con i guerriglieri dell’Isis nei dintorni a est della città, nella sfera d’influenza del sedicente Stato islamico.
In altre parole, l’obiettivo di Mosca coincide ancora una volta con quello di Damasco. E non si tratta di lotta all’Isis, ma ai ribelli che ne minacciano la zona vitale, la regione costiera di Latakia; gli stessi che da oltre tre anni contendono alle truppe fedeli ad Assad e alle formazioni jihadiste il controllo di Aleppo.
(Nella foto qui sotto: un soldato dell’Esercito siriano libero apre il fuoco contro posizioni strategiche del sedicente Stato islamico a Palmyra, in Siria)
In realtà l’Isis, comparso in Siria nel 2014 dopo quasi tre anni di guerra, non è mai stato il principale nemico di Assad né di nessuno dei suoi alleati, Russia compresa. Fino all’offensiva che ha portato la città di Palmyra sotto il controllo del sedicente Stato islamico dal maggio scorso, le operazioni militari del regime siriano contro l’Isis erano state quasi nulle.
Secondo alcuni analisti, è stata proprio la distruzione del sito archeologico patrimonio dell’Unesco, pubblicizzata dalla fenomenale macchina propagandistica del Califfato, a spingere con decisione il regime alla controffensiva contro l’Isis, anche più delle ovvie considerazioni strategiche legate al pericoloso avanzamento dei jihadisti nel cuore del Paese.
Le motivazioni russe dietro all’intervento armato in Siria non si limitano però al solo supporto al regime di Assad, né a una semplice coincidenza d’interessi con Damasco. Vladimir Putin ha un’agenda politica ben definita, che sta lentamente emergendo con il passare delle settimane.
Il Cremlino non ha alcuna intenzione di restare impantanato in un conflitto che – per quanto di grande importanza strategica – considera secondario rispetto all’Ucraina e il Caucaso. La Russia sta soprattutto usando la Siria come uno strumento per riaffermare la propria presenza regionale e soprattutto guadagnare una posizione chiave ai negoziati di pace, in occasione dei quali – alla fine – questa guerra sarà inevitabilmente risolta.
Il problema, e purtroppo la Russia non sembra rendersene pienamente conto, è che un simile intervento sta allontanando ancora di più la già remota possibilità di arrivare a una trattativa nel medio periodo, radicalizzando lo scontro sul campo. Se c’è un aspetto positivo dell’intervento russo in Siria, forse è proprio l’aver ricondotto al negoziato di Vienna per la prima volta Russia, Unione europea, Stati Uniti e tutti gli attori regionali – da Iran ad Arabia Saudita, passando per Egitto, Giordania Turchia e Iraq.
Tuttavia, le differenze sostanziali tra le posizioni dei Paesi coinvolti sono drammatiche, e resta molto difficile pronosticare un successo del vertice nella capitale austriaca. In particolare sta emergendo una differenza tra ciò che questi Paesi promettono nel negoziato, e ciò che effettivamente poi fanno sul campo.
L’ultimo mese in Siria è stato illuminante. L’amministrazione Obama ha intensificato i raid aerei della coalizione Nato e ha annunciato che saranno schierate tra le 20 e le 30 truppe speciali contro l’Isis, dopo anni di cautela nel distribuire aiuti alle fazioni ribelli, Washington ha risposto all’offensiva russo-siriana su Aleppo inviando armamenti ai gruppi riconducibili all’Esercito siriano libero, che si sono dimostrati fondamentali nel fermare l’offensiva di terra. Stessa cosa hanno fatto Arabia Saudita, Qatar e Turchia, sebbene Ankara stia rischiando di sirianizzarsi, anche a causa di questo gioco.
Dall’altro lato l’Iran – che da ben prima dell’inizio del conflitto era il vero partner militare ed economico di Damasco – ha preso la decisione di intervenire direttamente con le proprie forze militari ne Paese (alcune di queste sarebbero state impiegate proprio nella recente offensiva di terra). È il segno di una crescente coordinazione strategica con Mosca, tesa però a ricordare agli alleati russi chi comanda nello scacchiere siriano.
Non è escluso che in un futuro più o meno prossimo Teheran e Mosca si ritrovino su posizioni non così coincidenti: per l’Iran la priorità è mantenere in piedi il regime di Damasco, perché questo ostacola la nascita di uno stato sunnita in Siria e soprattutto è di vitale importanza per la sopravvivenza di Hezbollah. Questioni d’importanza secondaria per la Russia: specie Hezbollah, alla luce dei buoni rapporti di Mosca con Israele, che fornirà al governo russo dieci droni spia per un accordo da oltre 350 milioni di euro con una durata di tre anni.
* Davide Tramballi è un ricercatore e analista italiano. Collabora con TPI
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