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Home » News

Il coraggio dimenticato dei medici che restano vicino a chi ha scelto di morire

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Mina Welby, moglie di Piergiorgio Welby malato di distrofia muscolare e morto nel 2006, ha scritto per TPI un suo commento sulla vicenda di dj Fabo e sul fine vita

So che le scelte di dj Fabo, morto grazie al suicidio assistito in una clinica svizzera il 27 febbraio, possono far discutere. Come fa discutere l’aiuto del radicale Marco Cappato per poter realizzare la volontà di Fabo, ma dispiace che il nostro rapporto con una persona in gravissime condizione fisiche sia strumentalizzato in modo da nuocere al percorso di una proposta di legge che nulla ha a che fare con il suicidio assistito.

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Come Welby più di dieci anni fa, anche Fabiano Antoniani ha voluto aiutarci a sensibilizzare il Parlamento e l’opinione pubblica con il suo corpo sofferente. La proposta di legge ha avuto un percorso davvero accidentato con quattro rinvii.

Nemmeno Max Fanelli – morto per la Sla il 20 luglio 2016 – era riuscito con il suo corpo martoriato dalla sclerosi laterale amiotrofica (Sla) ad avviare in parlamento una legge sulla fine vita.

Non esiste in generale un diritto-dovere di eseguire delle volontà espresse di persone, ma appartiene alla dignità di uomini e donne avere la facoltà di opporsi a trattamenti sanitari su se stessi, come recita l’Art. 32 della nostra Costituzione.

“Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Ecco, il rispetto della dignità umana da parte di un medico o di una equipe di medici e sanitari si concretizza nel prendere in carico l’espressione di volontà di un uomo, una donna, riguardo la sua sorte di malato/a.

Qualora una simile espressione di volontà, ben ponderata e inequivocabile, non venisse rispettata, e il paziente sottoposto a trattamenti sanitari, rifiutati espressamente o perfino a sua insaputa, un’azione simile è eticamente criticabile e può essere giuridicamente perseguita.

E l’autodeterminazione del medico?

Di norma si parla maggiormente dell’autodeterminazione del paziente. Dell’autodeterminazione del medico si discute parlando di obiezione di coscienza, cioè del rifiuto di un rapporto per dei trattamenti sanitari o di assunzione di responsabilità di occuparsi di casi difficili o rischiosi.

Vorrei, però, ricordare un’altra forma di autodeterminazione del medico che probabilmente non è assolutamente ovvia, ma non meno importante: penso al coraggio del medico di rimanere accanto a un malato e poi accanto al letto del moribondo, riconoscendo i limiti raggiunti della sua arte medica, sopportarla e confrontarvisi con audacia.

È facile per un medico mandare a casa o in altro reparto un malato inguaribile e trattarlo nelle visite in modo elusivo. Tutto umanamente comprensibile; l’incontro con un paziente mette il medico dinanzi a dei limiti terapeutici: un fatto deprimente.

Dal punto di vista del paziente, queste situazioni mostrano se si ha a che fare con un tecnico o con un vero medicus, cioè con un uomo che si sente responsabile e legato al suo paziente, anche dove non ha più le possibilità di trattarlo con terapie, né forse nemmeno poter lenire totalmente le sofferenze. Può soltanto accompagnarlo verso la fine.

Per medico e paziente è comune responsabilità e compito riconoscere dove e quando inizia il processo inesorabile della morte. Il morire che, come diceva Welby, è un “processo di apprendimento”. La diagnosi e la valutazione della situazione, come tali, non indicano precisamente il da farsi, ma dipendono anche da come il paziente interpreti o valuti quelle diagnosi.

Il processo del morire può essere accettato come un’ultima chance rispetto al prolungamento delle terapie: il paziente sceglie se allungare la propria vita per poter ancora avere degli incontri importanti per lui, risolvere dei conflitti, studiare e dare indicazioni per il tempo che seguirà la sua morte, oppure anche solo per godere ancora l’ultimo frammento di vita, concedendosi piccole gioie.

Una valutazione e interpretazione opposta potrebbe essere quella di non ostacolare il processo del morire e anzi di desiderare ardentemente la morte, per poter chiudere finalmente gli occhi e poter riposare in pace. Il paziente potrebbe scegliere il rifiuto di ogni terapia, anche della nutrizione e idratazione, non solo artificiale, il rifiuto di terapie antibiotiche, terapie tecnologiche, come la ventilazione artificiale, l’emodialisi e molto altro.

Rispettare anche simili scelte, che i medici sanno quante sfaccettature possono assumere, è espressione di rispetto della dignità umana e diventa, come diceva il poeta Rainer Maria Rilke: “Il morire che nasce da quella vita dove ognuno ha trovato amore, senso e pena.”

In questa fase paziente e medico hanno il comune compito di trovare insieme la forma commisurata alla propria capacità del lasciarsi andare, dell’abbandonarsi all’ineludibile e trovare responsabilmente una conclusione.

Esiste poi la scelta limite del malato che chiede un aiuto attivo per poter morire, motivato da sofferenze fisiche inaudite o semplicemente per il rispetto della sua dignità umana. Chiedo però a chi mi legge di confrontarsi con simili richieste, senza ipocrisia, valutandole con serietà.

La proposta di legge che verrà discussa alla Camera non riguarda simile scelte, ma il buon medico ha a sua disposizione la possibilità di praticare la sedazione terminale profonda che può accompagnare il paziente nel sonno a una morte indolore e serena.

Voglio concludere con una citazione del filosofo tedesco Hans Georg Gadamer. “Negli attuali centri di terapia intensiva e negli ospedali geriatrici favoriamo il prolungamento vegetativo della vita che, per così dire, ci allontana dalla morte naturale, la ritarda in un modo che può apparire come una sorta di tormento di Sisifo, forse in un senso più profondo – il fatto cioè che la nostra vita cosciente si affievolisce rimanendo ormai solo come esistenza vegetativa. Per il modo in cui le nostre possibilità tecniche ci mantengono in vita, Sisifo ha acquisito un nuovo significato simbolico: noi tutti probabilmente dobbiamo continuamente imparare che morire è anche un processo di apprendimento, e non è solo il cadere in uno stato di incoscienza”.

Quando mi chiedono se c’è un diritto alla morte al pari di un diritto alla vita rispondo sempre rifacendomi al filosofo tedesco: “Sì! Si ha questo diritto perché si è uomini liberi e perché lo scopo della terapia medica presuppone la persona; presuppone quindi che si abbia a che fare con un uomo il cui volere deve esser rispettato. In questo senso non mi sembra affatto difficile rispondere alla domanda. Nella prassi diviene però molto più difficile poiché il morire, l’agonia stessa, è un lento paralizzarsi della libera possibilità di decidere in cui l’uomo vive come uomo consapevole e sano. Per questo è una domanda ragionevole la sua. Io comunque risponderei così come ho fatto.”

Quando il 13 marzo si discuterà alla Camera della proposta di legge sulla “dichiarazione anticipata di trattamento”, chiedo a tutti i parlamentari e ai cittadini di riflettere con serenità sulla nostra umana dignità, che va tutelata e rispettata, come vuole la nostra Costituzione e molte Carte internazionali ed europee.

Che ognuno di noi sia libero di decidere per se stesso senza interferenze di nessuno.

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