È davvero così semplice manipolare la mente di un adolescente?
TPI ha intervistato Giovanni Migliarese, psichiatra dell'ospedale Fatebenefratelli di Milano, per capire gli effetti della narrazione sul fenomeno Blue Whale in Italia
Il 14 maggio Le Iene, un programma televisivo di Mediaset, ha trasmesso un servizio sul Blue Whale, un gioco accusato in Russia di spingere i giovani a suicidarsi dopo aver superato 50 sfide.
Sull’argomento esistono informazioni ambigue e contrastanti, come TPI aveva evidenziato in un approfondimento di verifica pubblicato il 21 marzo. Se l’esistenza dei gruppi virtuali sul social network VKontakte è accertata, mancano le evidenze che colleghino le iscrizioni a questi gruppi con gli effettivi suicidi.
In Italia la pubblicazione di numerosi articoli sul Blue Whale, dopo la trasmissione delle Iene, solleva una domanda ulteriore, oltre a quella delle veridicità del fatto in sé. Gli adolescenti e la loro stabilità psico-emotiva possono davvero essere manipolati in questo modo?
TPI ha cercato di fare chiarezza intervistando Giovanni Migliarese, psichiatra dell’azienda ospedaliera Fatebenefratelli di Milano, esperto in tematiche adolescenziali.
Che idea si è fatto del fenomeno Blue Whale e della narrazione che è stata fatta in Italia?
Di sicuro sono comparsi molti articoli sul tema, ma non ho riscontrato un pensiero coerente. È difficile farsi un’idea in questo modo. Al di là della reale portata e della casistica che riguarda il Blue Whale, le dinamiche possono ricadere nelle forme dell’autolesionismo. Ma non solo.
Quali aspetti vanno osservati?
Questo gioco, se realmente si sostanzia come è stato presentato, va a intaccare diverse tematiche, a partire da quella della morte e quella della sfida, che sono molto presenti nell’adolescente.
C’è inoltre il tema della visibilità, dell’esposizione percettiva, delle paure arcaiche insite in ogni individuo e il bisogno di controllo dell’adolescente come forma di autodeterminazione.
Partiamo da quelle che lei sostiene siano le più evidenti: il tema dell’autolesionismo, della morte e quello delle sfide…
Di sicuro c’è il problema del malessere di questi ragazzi sui quali la sensazione di non potersi tirare fuori da un gioco, perché ormai sotto lo scacco di chi li ha coinvolti, ha maggiori possibilità di attecchire.
La morte come metafora è presente da sempre negli adolescenti, anche se loro, non ne sono coscienti. L’adolescenza è l’età in cui si comincia a scoprire la morte: c’è la parte bambino che muore a favore della nascita dell’adulto, c’è il corpo che si trasforma, la morte rispetto ai legami familiari per la costruzione di legami più adulti, quindi l’allontanamento dai genitori.
Si deve cominciare ad affrontare l’idea che non si può più vivere come Siddharta in un palazzo protetto da tutto, ma si entra nella realtà. Questo passaggio verso l’età adulta stimola la voglia di sfide.
Come mai?
Anche nei riti iniziatici, nelle tribù africane, l’accesso alla maggiore età prevedeva sfide che comportavano il rischio della morte. Se riuscivi a superarle venivi inserito nella società degli adulti. È un qualcosa che fa parte dell’essere umano, il volersi mettere alla prova per autodeterminarsi e accedere a una nuova fase.
Ma oltre la morte, l’autolesionismo e le sfide si parlava anche delle paure arcaiche…
Sì, quelle che abbiamo tutti dentro, del “cattivo” che ci mette a rischio, che vuole mangiarci un po’ alla volta. Una paura di distruzione, perché in ognuno di noi c’è un aspetto di distruzione che l’adolescente sa gestire meno bene. E può essere stimolante in questo senso avere delle sfide, come in questo gioco, per chiedersi: “Sono abbastanza per fare questo?”.
Il mettersi alla prova serve per dimostrare di vincere il cattivo, da soli, autodeterminandosi e senza il necessario controllo dei genitori.
Ma si può realmente arrivare fino a questo punto di manipolazione?
Esistono strumenti che ti aiutano a esaltare fenomeni che forse sono presenti da sempre, ma che messi sotto una lente di ingrandimento come quella di internet, moltiplicano gli stimoli, rendendoli più forti e potenzialmente più traumatici.
Rileva una maggiore sensibilità negli adolescenti di oggi? Sono più deboli di un tempo?
Penso di no. Alcune situazioni vanno ad amplificare delle dinamiche costanti. C’è più risonanza. Se questa cosa fosse successa 30 anni fa, non si sarebbe saputo. L’adolescente ha sempre le stesse dinamiche.
Però ha anche parlato del tema della visibilità come fattore da considerare…
Dal punto di vista percettivo, l’aspetto della visione è forte. Per esempio gli aspetti post traumatici che si possono presentare dopo aver visto il filmato delle Iene sono il riflesso di un comportamento emotivamente forte al quale si viene esposti. Internet facilita questo meccanismo.
Ossia?
L’aspetto cognitivo di vedere una cosa o di saperla è molto diverso. Questo aspetto della tecnologia ci permette di vedere cose che vanno ad agire a livello post traumatico tramutandosi in un pensiero fisso, ripetitivo, che non si riesce facilmente ad analizzare.
Ciò ha l’effetto di stimolare questo tipo di comportamenti più che disincentivarli?
Sì, perché è un’idea che ti gira in testa andando a stimolare certi pensieri in modo fisso.
Sulla questione della diffusione di questo tipo di notizie, come bisogna trattare l’argomento? Smontarle o approfondirle?
Ci sono aspetti per cui le informazioni possono rimanere più scolpite. Io su tutti i siti ho visto la foto della balena incisa sul braccio. Ecco, consiglierei di non mettere quel tipo di immagini.
Il visivo colpisce più dello scritto. Anche nel servizio delle iene, dove sono stati riprodotti spezzoni del video, si rischia di dare troppa risonanza a quelle persone.
Bisognerebbe ridurre quindi l’esposizione visiva?
Ho notato che il timore grosso riguarda proprio i ragazzi. C’è la paura del ragazzo che pensa “potrebbe succedere anche a me”, quindi dal punto di vista dell’informazione si potrebbe agire facendo capire che non succede a tutti e che comunque se ne può uscire.