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Home » Esteri

Noi, fuggiti dall’Isis a Mosul, vi raccontiamo cosa abbiamo visto

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Il reportage di Francesca Mannocchi per TPI che racconta la fuga di oltre diecimila civili dall’Isis, arrivati nei campi profughi del nord dell’Iraq

Negli ultimi giorni più di diecimila civili in fuga dall’Isis sono arrivati nei campi profughi del nord dell’Iraq. Arrivano dai villaggi intorno Mosul, dai primi quartieri riconquistati della città. In tutto il Kurdistan iracheno le organizzazioni umanitarie si stanno attrezzando per affrontare l’emergenza che inevitabilmente sarà determinata dall’offensiva militare. 

Il governo iracheno ha già messo a disposizione 13 siti per la costruzione di nuovi campi, che vanno ad aggiungersi a quelli già esistenti e ormai stracolmi, come quello di Al-Khazir, una sterminata distesa di tende bianche sulla strada che da Erbil porta a Mosul dalla parte est della città.

Vicino al campo di Al-Khazir c’è quello – nuovo – di Hassan Sham, è stato aperto solo due settimane fa e già ospita 1.000 famiglie circa 4.000 persone, nonostante la mancanza di elettricità, il poco cibo e i servizi igienici ancora in parte da attrezzare. 

Le famiglie provengono quasi tutte da Gogjali, ultimo villaggio a est di Mosul. I profughi arrivano in grandi camion e mezzi di fortuna, gli uomini separati dalle donne e dai bambini, formano due lunghe file ordinate di fronte alla recinzione metallica del campo.

“Gli uomini devono essere controllati e perquisiti – dice un soldato all’ingresso del campo – dobbiamo scongiurare il rischio che tra loro possano nascondersi membri dell’Isis che cercano di mimetizzarsi tra i profughi, per eludere i controlli. Ci è capitato spesso in queste settimane, per fortuna ci sono civili coraggiosi che ci indicano i sostenitori dell’Isis quando evacuiamo i villaggi”. 

Un altro soldato ci mostra una lista di nomi, appartengono a presunti membri dell’Isis: le liste arrivano dalle fonti che i servizi segreti iracheni hanno mantenuto con fatica all’interno dei villaggi e di Mosul, nel corso degli ultimi due anni. Quando arriva un camion di uomini, i soldati verificano le loro identità. In una mattina, di fronte all’entrata del campo, una decina di uomini le cui identità corrispondevano ai nomi presenti sulla lista, sono stati fermati e arrestati.

Husain viene da Gogjali, è in coda con decine di altri uomini, in una mano tiene i documenti di identità, con l’altra stringe la mano del figlio, Firas, di otto anni. Husain non è riuscito a portare via niente da casa sua. “Gli ultimi giorni a Gogjali sono stati terribili. Eravamo terrorizzati dal rumore delle bombe, ma soprattutto eravamo sotto continua minaccia dell’Isis. Quando hanno capito che stavano per perdere il villaggio si sono barricati in alcune abitazioni, costringendo le persone a non uscire. Hanno utilizzato decine di famiglie come scudi umani”.

“La cosa peggiore però è che una mattina hanno radunato alcune famiglie – c’erano anche molto bambini – costringendo tutti a seguirli. Temo che li abbiano portati a Mosul. Io sono molto preoccupato per i miei vicini e i miei conoscenti e purtroppo non ho più notizie di alcuni miei familiari”. 

Husain non lascia mai la mano di suo figlio, il piccolo Firas ha lo sguardo smarrito, si guarda intorno cercando di capire cosa lo aspetta. Quella distesa di tende sta per diventare la sua nuova casa. Nessuno sa per quanto tempo. Husain non riesce a trovare la moglie tra i rifugiati, non ha un telefono. I telefoni sono stati vietati per due anni. I più fortunati sono riusciti a nasconderli in casa per rimanere in contatto con le famiglie lontane. Firas non lascia mai la mano di suo padre, la paura nei suoi occhi è evidente così come gli indelebili ricordi di mesi di terrore.

“Ho impedito a mio figlio di frequentare scuole islamiche – dice Husain – una delle prime regole che hanno imposto è stata la chiusura di tutte le scuole. Poi hanno cominciato ad organizzare le scuole islamiche nelle case e un giorno sono venuti a prelevare mio figlio per forzarlo a frequentare le loro lezioni. Quando Firas è tornato a casa mi ha detto che insegnavano ai bambini ad uccidere, che spiegavano il valore del sacrificio della loro vita in nome di Allah”. 

“Non so come sarà il nostro futuro, ma so solo che l’unica cosa che desideravo era portare via mio figlio da Gogjali, salvarlo dal loro lavaggio del cervello. Nelle ultime settimane, da quando sono iniziati i combattimenti, l’Isis reclutava anche i bambini, volevo evitare che Firas subisse lo stesso destino”. 

Le donne nella fila accanto si liberano dei niqab e dei burqa. Per la prima volta dopo più di due anni mostrano i loro volti, libere. La rete metallica all’ingresso del campo in poco tempo si riempie di veli neri, simboli dell’oppressione. Hana è appena arrivata da Gogjali, piange tra le braccia delle sue cugine. Le ha ritrovate nel campo profughi, non le vedeva dall’estate del 2014.

Hana, soprattutto, a Hasan Sham ha ritrovato suo marito. Non lo vedeva da quando l’Isis aveva occupato il suo villaggio e lui era riuscito a scappare ad Erbil. 

“Sono riuscita a nascondere un telefono cellulare in un buco che ho fatto sul pavimento della nostra camera da letto. Sapevo di rischiare molto. Tutto era proibito, la televisione, i telefoni, ogni forma di comunicazione con l’esterno. Non ci era permesso sapere cosa accadesse al di là del loro controllo. Potevamo ascoltare la loro radio, tutto il resto era vietato. Per chi infrangeva la legge c’erano punizioni corporali, pubbliche o l’arresto. E io ero terrorizzata di finire nelle mani della polizia islamica. Troppe volte chi è stato arrestato non ha fatto ritorno a casa. Ma avevo bisogno di parlare con mio marito, ho pregato ogni giorno di rivederlo”. 

Hana stringe tra le mani un telefono cellulare, lo stringe come la cosa più preziosa che ha dopo la sua libertà. Ora può parlare con la sua famiglia. Sorride, come fosse la prima volta che lo fa. Piange, abbracciando suo marito, sa di essere fortunata.

“Negli ultimi giorni ho pensato di morire. Non c’era più cibo, né elettricità, anche l’acqua scarseggiava. Sapevamo che stare a Gogjali era terribile, ma sapevamo anche che la fuga era pericolosa. Molti civili sono stati puniti perché scoperti dall’Isis mentre tentavano di scappare”. 

Anche Hana ha gettato il suo burqa sulla rete metallica del campo. Ora indossa un velo turchese e può mostrare orgogliosa il proprio viso. 

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