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Home » Esteri

Cosa sta accadendo in Kashmir, la valle dove India e Pakistan si scontrano

Immagine di copertina

Il reportage di Camillo Pasquarelli sulle tensioni che da quasi 70 anni percorrono la regione e che negli ultimi tempi sono sfociate in una dura repressione

“Benvenuto in Kashmir, benvenuto in India”, mi dice un paramilitare indiano dopo aver controllato il mio passaporto a uno dei tanti posti di blocco di Srinagar, la capitale estiva del Kashmir indiano.

Le strade della città sono deserte. Il traffico bloccato dal filo spinato. I negozi sono chiusi, la popolazione imprigionata nelle case. Le forze dell’ordine sorvegliano ogni angolo con le armi in pugno, non permettono a nessuno di circolare. I ragazzi si nascondono nei vicoli e aspettano il momento giusto per lanciare le pietre.

L’8 luglio Burhan Wani, giovane comandante di Hizbul-Mujahideen, gruppo armato separatista kashmiri, è stato ucciso dalle truppe indiane. Celebre soprattutto tra i giovani grazie ai social network, la sua morte ha dato il via a una delle insurrezioni più intense degli ultimi sei anni. Il bilancio, a oggi, è drammatico: tra i civili, sono decedute 90 persone e circa 12mila sono rimaste ferite. 

Ma le radici del risentimento sono profonde e, tra le altre cose, legate alla presenza nella regione di 6-700mila soldati indiani che agiscono impunemente grazie ad alcune leggi speciali. L’India e il suo esercito sono percepiti come un’occupazione illegittima che per decenni non ha fatto altro che sopprimere con la violenza le aspirazioni politiche della popolazione.

(La polizia kashmiri pattuglia le vie della città di Srinagar, in Kashmir. L’articolo prosegue sotto l’immagine)

Dopo esser stata per millenni la culla del sufismo, il misticismo islamico, oggi quella che era conosciuta come la valle dei santi si è tragicamente trasformata nella valle dei martiri della lotta per l’azadi – libertà, in urdu. 

Il pugno di ferro indiano sparge semi di odio e rabbia

Da quattro mesi il governo ha imposto il coprifuoco in tutta la valle. Internet e la rete telefonica sono stati sospesi. I leader della Hurryat Conference, la principale organizzazione separatista kashmiri, ogni settimana diffondono un calendario delle proteste e rinnovano lo sciopero generale. Tutti gli edifici pubblici sono chiusi, inclusi gli istituti scolastici. Per evitare che i bambini rimangano troppo indietro sono state organizzate delle scuole di fortuna gestite da volontari in case private o nelle moschee.

In molti rischiano di perdere l’anno se non sarà stabilita una data per gli esami. “Dicono sarà a novembre”, mi comunica Rubeena, insegnante statale. “Chi pensano si presenterà agli esami? Immagina l’appello. Numero uno: assente, in prigione. Numero due: assente, deceduto. Numero tre: assente, ricoverato in ospedale. Numero quattro: assente, il padre è morto”. 

La violenta estate del 2016 sarà ricordata per il controverso uso dei pellet gun, fucili che in un colpo solo sparano circa 500 piccoli pezzi di metallo. Introdotti nella valle dopo il 2010 per sedare le proteste, sono classificati dal governo indiano come “armi non letali”. Peccato però che almeno un centinaio di giovani abbiano perso la vista a causa di questi pezzi di metallo, e decine siano morti a causa delle ferite riportate. I pellet gun, infatti, diventano pericolosissimi se sparati da distanza ravvicinata e, soprattutto, all’altezza del petto e della testa.

(Sameer, 22 anni, è stato colpito da due proiettili durante una sassaiola nel 2010. L’articolo prosegue sotto l’immagine)

Nel reparto di oftalmologia dell’ospedale Shri Mahraja Hari Singh di Srinagar la situazione è terribile. Ogni giorno arrivano centinaia di persone con ferite che comportano spesso danni irreversibili.

Sajad Maqbool giace in un letto con metà del volto coperto da bende. Racconta che il 5 agosto aveva preso parte a un corteo pacifico a Bandipora, quando all’improvviso la polizia kashmiri e i paramilitari indiani hanno aperto il fuoco. Colpito dai pellet all’occhio destro, sul petto e sulla testa, dopo la prima operazione, una sfera gli ha perforato la retina.

Per la vista di Sajad probabilmente non c’è più niente da fare, ma dice: “Sono orgoglioso di aver sacrificato un occhio per la causa kashmiri. Tornerò a protestare perché finché non avremo l’azadi non smetteremo di lottare”.

La determinazione dei giovani non sorprende Ghulam Shah, medico in questo reparto: “La maggior parte dei feriti viene dal sud del Kashmir, l’epicentro delle proteste e la zona natale di Burhan Wani. Più volte mi hanno confidato la loro volontà di unirsi ai gruppi armati una volta usciti dall’ospedale”.

Ecco come quei piccoli pezzi di metallo nei corpi dei giovani kashmiri si trasformano in semi che una volta germogliati daranno vita a fiori di odio e rabbia. Quanti altri Burhan avrà creato la repressione indiana?

L’importanza di chiamarsi Burhan

Burhan Bashir, 23 anni, abita a Rainawari, una zona di Srinagar che si è distinta come uno dei principali focolai delle proteste. Il giovane racconta: “Era il 7 agosto e sotto le mie finestre erano in corso dei violenti scontri. Dall’ultimo piano, vedevo che le forze dell’ordine avevano catturato un manifestante. Lo trascinavano violentemente per una gamba verso la stazione di polizia. Lo prendevano a calci e lo colpivano con il calcio del fucile. Pensavo sarebbe morto, c’era una scia di sangue per terra”.

Burhan, allora, prende il cellulare e registra la brutale scena. La sera stessa carica il video su internet. Il giorno dopo le autorità cercano il responsabile: “Due poliziotti in abiti civili si sono intrufolati silenziosamente in casa mia e mi hanno arrestato”.

Alla stazione di polizia ripete di non aver commesso nessun crimine, ma “quando gli ho detto che il mio nome era Burhan alcuni poliziotti mi hanno schiaffeggiato e preso a calci. Uno mi ha detto: ti facciamo fare la stessa fine dell’altro Burhan. Altri invece hanno cercato di intervenire per difendermi. E mi sorridevano”.

Picchiato e insultato, il giovane rimane dieci giorni alla stazione di polizia. “Ironia della sorte, sono finito nella stessa cella del ragazzo protagonista del video. Mi ha ringraziato a lungo per quello che avevo fatto. All’inizio è stato difficile, era la prima volta che ero in prigione, avevo perso completamente l’appetito. Lui mi ha aiutato molto a tranquillizzarmi“.

Viene rilasciato con ben otto capi d’imputazione, tra i quali aggressione e pubblico ufficiale, violazione del coprifuoco, attacco alla nazione, e danni alla proprietà pubblica. Il video non è nemmeno menzionato.

Burhan sognava di studiare giornalismo a Delhi, questo doveva essere il suo contribuire alla causa kashmiri. Ora, però, finché non finisce il processo non può allontanarsi dallo stato del Jammu e Kashmir: “Il processo durerà almeno tre anni, visto quanti casi di questo tipo ci sono. La mia carriera da giornalista è rovinata”.

(Su un muro in Kashmir si legge la parola azadi, libertà in urdu, e il nome di Burhan Wani, leader separatista ucciso dalle forze dell’ordine indiane. L’articolo prosegue sotto l’immagine)

La questione internazionale

La valle del Kashmir è oggetto di contesa tra India e Pakistan fin dal 1947, e le due nazioni hanno combattuto tre guerre rivendicandone il controllo. Uno dei nodi principali è la risoluzione Onu del 1948 che invitava l’India a tenere un referendum per interrogare la popolazione su quale nazione avrebbe preferito. Il plebiscito non è mai stato indetto.

L’amministrazione del primo ministro indiano Narendra Modi aveva dato segnali positivi riguardo alle relazioni tra i due paesi, lasciando sperare in una nuova fase di dialogo. Gli eventi del 18 settembre scorso, però, hanno completamente cambiato lo scenario. A Uri, in Kashmir, una base militare indiana è stata attaccata da un commando di Jaish-e-Mohammed, gruppo terroristico operativo nella zona, che è riuscito a uccidere 20 soldati.

Il governo indiano ha subito accusato il Pakistan, proclamando a gran voce che i responsabili non sarebbero rimasti impuniti. Dieci giorni dopo l’esercito ha compiuto una serie di attacchi mirati oltre la Linea di controllo, il confine cuscinetto che separa il Kashmir indiano da quello pachistano, distruggendo diverse postazioni terroristiche.

L’ultimo mese è stato caratterizzato da un botta e risposta dai toni piuttosto accessi che ha infiammato lo sciovinismo in India, fomentato dai membri del governo e dai media nazionali, tutti impegnati in analisi e proiezioni belliche, arrivando addirittura a fare il conto delle truppe a disposizione dei due schieramenti, ovviamente per dimostrare la supremazia di Nuova Delhi.

Uno degli effetti meno sottolineati dai media internazionali è stato che l’attacco, e le deteriorate relazioni tra i due paesi, hanno completamente oscurato l’attenzione mediatica riguardo la situazione interna al Kashmir e l’insurrezione di quest’estate.

A inizio settembre la popolazione della valle sperava che un qualche risultato fosse imminente dopo due mesi di disordini, proteste e morti.

Ma i fatti di Uri non solo hanno allontanato qualsiasi possibilità di dialogo tra India e Pakistan riguardo la questione kashmiri, ma hanno anche avuto un immediato impatto sull’umore della popolazione. Dopo il 18 settembre, infatti, l’intensità delle proteste è considerevolmente diminuita. 

Ancora una volta la valle del Kashmir è tornata a essere un confine infuocato o un trofeo da vincere in onore del nazionalismo indiano o pachistano, piuttosto che un luogo dove la voce della popolazione viene soffocata ogni giorno.

*Testo e immagini a cura di Camillo Pasquarelli

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