Le donne che si ribellano all’acido
Ogni anno nel mondo avvengono 1500 attacchi con l’acido. In India un'associazione aiuta le donne sfregiate a rialzarsi e sorridere
Non appena l’acido tocca la pelle, la sensazione è di freddo. Poi solo tanto dolore. La pelle inizia a squamarsi e, nel peggiori dei casi, l’acido penetra nelle ossa e inizia a corroderle.
Laxmi Saa lo sa bene. Aveva solo 15 anni quando le è stato sfregiato per sempre il volto. In una mattina di maggio del 2005, mentre attendeva l’autobus per andare a lavoro presso una libreria di Nuova Delhi, un uomo di 32 anni le ha gettato in faccia un secchio di acido. Il motivo? Laxmi non voleva sposarlo, non lo amava.
“È come se il mio volto avesse preso fuoco, la pelle si scioglieva e si staccava dalla faccia. Urlavo dal dolore, piangevo, chiedevo aiuto ai passanti, ma nessuno è venuto in mio soccorso”, mi ha detto Laxmi in un’intervista via email.
L’uso dell’acido per colpire volontariamente un altro essere umano provoca raramente la morte della vittima, ma ha effetti gravissimi sul corpo umano, spesso permanenti: chi getta l’acido contro qualcuno lo fa per menomarlo, sfigurarlo o accecarlo.
Per Laxmi, infatti, i nove anni successivi all’attacco sono stati segnati da lunghi ricoveri in ospedale. Ha dovuto sottoporsi a sette interventi chirurgici per cercare di ridare forma al suo volto.
“Dopo un po’ s’impara a convivere con il dolore fisico, ma è quello psicologico che non passa”, racconta Laxmi. “Non ti senti più a tuo agio con il tuo corpo, lo specchio diventa il tuo peggior nemico, eviti di uscire e se lo fai ti copri con un velo. La società ti emargina, il senso di solitudine ti opprime. Ogni mattina mi alzo chiedendomi qual è stata la mia colpa per meritarmi tutto questo”.
Nonostante tutto, però, Laxmi ha trovato la forza di ricominciare a vivere, aiutando le donne che, come lei, hanno subito un attacco simile. Ha iniziato a far parte di Stopacidattacks, un’associazione fondata da Alox Dixit, giornalista che si batte per creare un ponte tra le vittime dell’acido, la società e il governo indiano, in modo da finanziare le loro spese mediche e garantire condanne più certe per chi è colpevole.
“Il mio aggressore è stato condannato a soli dieci anni di carcere dopo avermi rovinata per sempre la vita”, aggiunge Laxmi. “Quando sarà di nuovo libero, quale garanzia ho che non mi farà più del male?”.
Prima di gennaio 2013 non c’era nessuna legge specifica che prevedesse sanzioni per gli “attacchi con l’acido”. Solo grazie a una relazione fatta da un comitato ad hoc, le cose sono iniziate a cambiare.
Nel codice penale dell’India è stato inserito il reato di violenza con l’acido, punibile con il pagamento di una multa e la reclusione minima di dieci anni estendibile al carcere a vita. Ma anche questo aggiornamento della legge non basta. In India l’acido solforico, comunemente usato come detergente, è molto facile da reperire. Un litro può costare anche un dollaro o cinquanta centesimi.
Per aggirare questo problema, nel luglio dell’anno scorso la Corte suprema indiana ha emanato una sentenza che stabilisce una serie di regole per controllare la vendita di acido, imponendo una licenza per distribuirlo e proibendone l’acquisto ai minorenni. Ma questa sentenza trascura ancora alcuni elementi importanti quali l’assistenza medica gratuita per le vittime sfregiate dall’acido e il controllo effettivo dalle autorità di polizia sull’applicazione delle regole.
Fare una stima di quante vittime sono state colpite dall’acido in India nell’ultimo anno non è cosa semplice: mancano i dati ufficiali. Secondo l’Acid survivors trust international (Asti), un’organizzazione con sede a Londra impegnata nella lotta contro questo tipo di abusi, nel mondo ogni anno ci sono circa 1.500 attacchi con l’acido.
Un rapporto del 2011 sulle violenze con l’acido in India, Bangladesh e Cambogia, pubblicato nel gennaio 2012 da Avon global center for women and justice della Cornell law school, scrive che ci sono stati 153 casi di violenza con l’acido tra il gennaio del 2002 e l’ottobre del 2010 in India.
Molte donne, però, dopo aver subito questo tipo di violenza, non denunciano alla polizia i loro aggressori, sia perché provano vergogna, sia perché nutrono poca fiducia nei tribunali indiani, per cui è probabile che il loro numero sia in realtà molto più alto.
“Se io sono riuscita a ricominciare a vivere, anche le altre donne colpite dall’acido possono farcela”, sostiene Laxmi. “Non bisogna mai farsi rubare la speranza. Dobbiamo lottare per i nostri diritti”.
Le violenze con l’acido non sono un fenomeno limitato a un area geografica particolare o a forme di estremismo religioso, come si legge sul sito dell’Acid survivors trust international. Avvengono in Asia meridionale e nell’Africa subsahariana, in Medio Oriente e in Europa. Secondo i dati forniti dal sistema sanitario nazionale del Regno Unito (Nhs), tra il 2011 e il 2012 ci sono stati 105 ricoveri ospedalieri per “attacchi con sostanze corrosive” (quindi con acido solforico e altri composti).
In Colombia l’anno scorso sono stati registrati 150 casi di violenza con l’acido. Anche in Italia l’uso dell’acido contro le donne è un problema: il 12 agosto 2013 a Genova una donna è stata colpita con l’acido, riportando ustioni sul viso e sulle braccia e una lesione alla retina di un occhio.
Gli attacchi colpiscono più di frequente le donne. In Pakistan, per esempio, l’80 per cento delle vittime di attacchi con l’acido appartengono al genere femminile e molte di loro hanno meno di 18 anni, secondo l’Acid survivors foundation, un’organizzazione contro gli abusi di questo tipo.
A subire gli attacchi sono anche gli uomini. Nel gennaio del 2013 il direttore artistico del teatro Bolshoi, Sergei Filin, ha subito un attacco con l’acido. Oggi, dopo 18 operazioni, è ancora quasi completamente cieco.
Un quarto delle vittime riconosciute sono bambini. Sono stati riportati casi di padri che hanno versato acido sulle loro bambine perché volevano un figlio maschio.