Se denunciare il compagno violento non basta a salvare la vita di una donna
TPI ha intervistato tre esperte per capire cosa possono fare le donne vittime di violenze da parte del partner e quali sono le tutele fornite dallo Stato italiano
“La donna in passato aveva denunciato il partner e si era già rivolta a un centro antiviolenza”. Troppo spesso nei casi di femminicidio sentiamo ripetere frasi simili. Ma come è possibile che non si riesca a evitare che questo accada? Quali sono i punti deboli nella tutela delle donne vittime di violenza?
“Ricordiamoci che una donna che subisce violenza 8 volte su 10 non chiede aiuto, secondo l’Istat. E a volte sentiamo notizie su donne uccise che erano state già maltrattate e non avevano chiesto aiuto. Quasi a dire che se lo avessero fatto si sarebbero salvate, ma purtroppo non è sempre così”, spiega a TPI Anna Costanza Baldry, psicologa e criminologa dell’università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli, che in passato ha fatto parte dell’Associazione Differenza Donna che tutela le donne vittime di violenza e della Rete nazionale DiRe (Donne in Rete).
“Vediamo molti casi in cui la donna aveva denunciato e poi è stata uccisa. Le donne temono di denunciare perché hanno paura di scatenare reazione di rabbia o violenza, cosa che effettivamente è possibile. Ma non dobbiamo generalizzare, ogni caso è diverso”, continua Baldry.
“La prima cosa da capire è che la denuncia di per sé è uno strumento preliminare, non è tutto quello di cui una donna ha bisogno per essere protetta. Non è che l’uomo viene arrestato e finisce lì: è una catena. Bisogna lavorare con la donna accompagnandola nel suo percorso, altrimenti c’è il rischio che dopo un po’ torni con il marito e ricominci tutto daccapo”.
Cosa serve per proteggere le donne dalle violenze del compagno
“La violenza è un problema complesso e va affrontato come tale, con un approccio integrato”, spiega a TPI Angela Romanin, responsabile della Formazione presso la Casa delle donne di Bologna, che è stato uno dei primi centri antiviolenza ad aprire in Italia alla fine degli anni Ottanta. Da allora supporta le vittime di violenza adottando un approccio femminista.
“Bisogna mettersi dalla parte della vittima e sostenerla nelle sue scelte. Noi cerchiamo di trasmettere questo messaggio agli operatori che formiamo”, dice Romanin. “L’approccio giusto è quello suggerito dalla normativa europea e dalla Convenzione di Istanbul, basato sull’alleanza con la donna e sull’empowerment. La donna deve anche essere seguita da un’organizzazione internazionale di donne contro la violenza che ha uno scopo chiaro e mette la protezione in cima a tutto”.
I centri antiviolenza per loro missione non fanno solo un sostegno relazionale e psicologico, ma forniscono una serie di aiuti concreti. Per esempio riescono a mettere in contatto la vittima con avvocate esperte sulla questione della violenza, possono fornire ospitalità nelle case rifugio e possono anche accompagnare in un percorso di rete, in modo da fornire una protezione integrata.
La violenza coinvolge aspetti sociali, economici, culturali, psicologici, legali. Per questo anche il sostegno a una singola donna per essere efficace deve essere concordato in rete. Quando un centro antiviolenza è solo, o quando la donna è aiutata solo da un assistente sociale e non c’è un’integrazione con gli altri operatori, l’aiuto che le viene dato è meno efficace.
Anche l’efficacia di un ammonimento richiesto al giudice può variare in base all’esperienza che l’avvocato ha nel settore. Un ammonimento per stalking in sede civile, se violato, ha conseguenze diverse rispetto a uno in sede penale. Per questo è fondamentale rivolgersi a avvocati specializzati e sfruttare il network che il centro antiviolenza ha costituito negli anni.
“Secondo l’Istat solo il 12 per cento delle vittime denuncia il partner”, spiega Romanin. “Di questa percentuale arriva a condanna una percentuale allo zero virgola. Ora alcune cose stanno cambiando, la polizia è quella che ha fatto più formazione, le donne sono più soddisfatte rispetto al passato nei sondaggi”.
Che tipo di supporto può offrire un centro antiviolenza
Quando una donna si rivolge al centro, una delle prime cose da fare è la valutazione del rischio di recidiva e il possibile omicidio.
Gli strumenti da mettere in campo sono di tre tipi e sono chiamati “le tre P”: protezione della donna, punizione del responsabile e prevenzione della violenza.
“In Italia la punizione del responsabile è molto carente”, sostiene la responsabile della Casa delle donne di Bologna. “Ma questo non si risolve facendo altre leggi: bisogna fare applicare quelle che ci sono. Basta guardare che condanne irrisorie hanno gli autori di femminicidio: intorno ai 20 anni, quasi mai si arriva all’ergastolo. Che poi con gli sconti di pena e senza precedenti alla fine dopo sei o sette anni è fuori. Lo Stato non ha ancora preso sul serio la necessità di proteggere le vittime di violenza, perché questi casi non sono equiparati alla protezione offerta ai testimoni di giustizia o alle vittime di mafia”.
“Nel nostro paese si contano tra i 150 e i 170 femminicidi all’anno (nel 2016 sono stati 120, ndr), e un numero uguale di tentati femminicidi”, prosegue Romanin. “Sono i casi più gravi e numericamente limitati. Ma c’è anche un enorme numero di donne che subiscono maltrattamenti gravi e ripetuti. È a quella massa di donne che bisogna dare una risposta integrata”.
Secondo lei serve un coordinamento tra assistenti sociali, forze dell’ordine, centro antiviolenza, assistenza legale. Solo in questo modo si può mettere a punto un piano di protezione davvero efficace, a partire dai bisogni che ha la donna.
Quali sono gli strumenti che offre la legge
Nei casi di violenza contro le donne si può procedere sia in sede civile sia penale.
Uno strumento utile, introdotto per legge nel 2001, è l’ordine di protezione, che permette l’allontanamento da casa del partner violento ed eventualmente anche il divieto di avvicinamento. Ma questo strumento è applicato ancora a macchia di leopardo in Italia.
“Ho scoperto girando che in alcuni territori non viene proprio richiesto, ci sono zone in cui si riesce ad ottenerlo dopo 48 ore e altre in cui occorrono tre mesi”, sottolinea Angela.
La tempistica è fondamentale perché se la donna chiede aiuto e si concorda il suo allontanamento e il trasferimento in una casa rifugio bisogna contemporaneamente fare in modo che sia protetta. Finché non è emesso un ordine di protezione lei non può andare a lavoro o accompagnare i figli a scuola, perché non c’è ancora una limitazione della potestà genitoriale e il marito/padre violento potrebbe andarli a prendere e tenerli con sé.
Un altro strumento utile è l’aspettativa per violenza, una nuova misura che consente alle donne di assentarsi dal lavoro senza perderlo.
“Di leggi a tutela delle donne ce ne sono tantissime, ma queste leggi o non sono applicate o non c’è una struttura armonica di tutela della donna vittima di violenza”, dice a TPI Teresa Manente, avvocata specializzata sulla violenza contro le donne e membro dell’associazione Differenza Donna. “Molto dipende dai tribunali e dalla sensibilità del magistrato. E quindi la situazione cambia nelle varie zone d’Italia”.
Per assicurare la protezione alle donne vittime di violenza è fondamentale una piena applicazione della Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, promossa dal Consiglio d’Europa. L’Italia ha ratificato questo testo ma questo non è stato ancora attuato del tutto.
Un altro passo importante è l’elaborazione di un piano nazionale antiviolenza aggiornato. “Quello che serve è una protezione integrata, diversi stati europei l’hanno messa in pratica”, spiega Angela. “Si parte da una formazione a tappeto di tutti gli operatori delle agenzie chiave e dall’inserimento della materia della violenza sulle donne nei programmi curriculari universitari”.
Cosa può fare una donna che non ha ancora deciso di denunciare
“A una donna vittima di violenza che non ha ancora deciso di andare via da casa consiglio di contattare un centro antiviolenza della rete DiRe, che offrono sostegno riservato, anonimo, gratuito e non intraprendono nessuna iniziativa senza il consenso della donna”, dice Romanin. “Se lei non vuole andare via di casa si forniscono informazioni legali, supporto al lavoro, la si aiuta a lavorare sulla propria decisionalità e a diradare la nebbia provocata dai traumi ripetuti. Spesso le donne pensano di essere le uniche al mondo a subire questo e si sentono isolate”.
“Se la donna non vuole denunciare non deve denunciare”, spiega l’avvocata Manente. “La mia esperienza è che denuncia solo come ultima ratio, quando sente in pericolo la propria incolumità. Prima cerca di separarsi oppure si può chiedere un provvedimento al giudice civile di allontanamento dalla casa familiare”.
Se la donna decide di denunciare il compagno violento occorre una querela e bisogna dimostrare la pericolosità del responsabile attraverso la denuncia delle reiterazioni dei delitti.
“Non può essere un solo episodio: uno schiaffo non permette la misura cautelare, quello che la consente è la reiterazione”, spiega l’avvocata. “Poiché sono reati per cui non c’è mai un testimone diretto, nel penale sono molto importanti anche i testimoni indiretti, cioè quelli che raccontano cosa ha detto loro la donna. Anche se non hanno visto la violenza, hanno verificato lo stato di terrore che lei ha vissuto. Lo può fare un medico, un amica, un assistente sociale. Ho avuto casi di insegnanti che hanno testimoniato che il figlio della donna ha scritto in un tema a scuola di aver visto il padre che picchiava la madre”.
“Gli omicidi delle donne sono esiti letali di una relazione di potere. Non avvengono mai per caso”, conclude Manente. “Io ho rappresentato la mia associazione Differenza donna nel processo sull’omicidio di Sara Di Pietrantonio. Alcuni giornali hanno scritto che ho chiesto una condanna esemplare ma non è così, io ho chiesto una sentenza che riconosca che l’omicidio di Sara sia l’effetto letale di una relazione di potere dell’uomo sulla donna. Che riconosca che Sara sia stata uccisa in quanto donna e non per effetto di un raptus, ma per un’azione programmata dopo che ha provato a recedere da un rapporto basato sulla ‘proprietà’ dell’uomo sulla donna”.