Le carceri egiziane sono un inferno
Nell’ultimo anno sono state arrestate oltre 16mila persone e circa 80 sono decedute in prigione. La situazione è catastrofica
Non sono più riservate solo a ladri o assassini: le prigioni egiziane ospitano oggi giornalisti, attivisti, politici e semplici cittadini.
Nell’ultimo anno sono state arrestate oltre 16mila persone e circa 80 sono decedute mentre si trovavano in carcere, denuncia l’ultimo rapporto di Amnesty International.
Secondo l’Ong, la situazione in Egitto è “peggiorata in modo catastrofico”: Amnesty afferma che torture, arresti arbitrari e detenzioni senza processo sono ormai una routine.
Il rapporto è stato pubblicato il 3 luglio, in occasione dell’anniversario della caduta del governo Morsi, il leader dei Fratelli Musulmani che aveva guidato il Paese nella transizione post-Mubarak e che nel 2013 fu deposto dal generale al-Sisi.
“Nonostante le ripetute promesse dell’attuale presidente e dei suoi predecessori di rispettare la legge, nell’ultimo anno si sono verificate violazioni dei diritti umani con una frequenza allarmante e alle forze di sicurezza è stata garantita la possibilità di commetterle nell’assoluta impunità”, afferma Hassiba Hadj Sahraoui, direttrice del programma Medio Oriente e Nord Africa di Amnesty International.
Da gennaio è stata confermata la pena di morte per 247 persone ed è stata richiesta per altre 1.247. Fra i condannati vi sono anche dei minorenni, in aperta violazione ai principi della Convenzione dei Diritti del Bambino che anche l’Egitto ha ratificato nel 1990.
I processi sono stati condotti in modo approssimativo e spesso agli avvocati della difesa non è stato permesso di entrare in aula. In uno dei casi riportati da Amnesty, un detenuto ha raccontato di essere stato tenuto illegalmente nel campo militare di Al Galaa per 96 giorni, senza avere la possibilità di contattare un legale o i suoi familiari.
“La situazione sul campo è molto pericolosa, soprattutto per noi giornalisti”, dice Ahmed Hamdy El Sayed, reporter che lavora per un settimanale egiziano. “Quando andiamo a seguire le proteste, cerchiamo di non far vedere che siamo giornalisti per non essere presi di mira. In caso di arresto, se il direttore del giornale non interviene in tempo, si corre il rischio di restare nelle mani della polizia senza nessuna garanzia e senza sapere quando si verrà liberati”.
Le forze di sicurezza reprimono ogni forma di dissenso in modo brutale, con gli stessi metodi di tortura usati durante la dittatura di Mubarak, che vanno dagli shock elettrici agli stupri. Anche le confessioni estrapolate sotto tortura vengono considerate valide durante i processi e le forze di sicurezza cercano di estorcere informazioni utili a incriminare membri dei Fratelli Musulmani.
“Viviamo una situazione infernale”, dice Doaa Kassem, portavoce della sede egiziana dell’Ong Media and Diversity Institute. “Se per caso la polizia ti ferma per strada, non sai se sarai arrestato e se in cella verrai torturato né quanto a lungo sarai trattenuto in prigione. Il governo di al-Sisi sta mandando un messaggio chiaro: se non sei dalla nostra parte, lascia il Paese o verrai punito”.
Ma a farne le spese non sono soltanto gli oppositori del governo: di fatto, chiunque non sia apertamente schierato con al-Sisi è a rischio. Come si legge nel rapporto di Amnesty, Mahmoud Mohamed Ahmed Hussein, uno studente di 18 anni, è stato arrestato mentre tornava a casa dopo una manifestazione, in occasione del terzo anniversario della rivoluzione che portò alla caduta del regime di Mubarak nel gennaio 2011. Indossava una maglietta con il logo della rivoluzione e una sciarpa con uno slogan contro la tortura. Due elementi che, secondo la polizia, sono chiari indicatori di attività sovversive che minacciano la sicurezza nazionale.
Mahmoud fu bendato, picchiato, sottoposto a elettroshock ai testicoli e interrogato dagli ufficiali delle forze di sicurezza. Nonostante fosse innocente, si ritrovò a confessare di possedere materiale esplosivo pur di accontentare e fermare i suoi aguzzini.