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Home » Esteri

Perché le borse in Cina sono crollate

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Nel mese di agosto i mercati cinesi sono scesi a picco, scatenando reazioni a catena nelle borse di tutto il mondo. Ma perché sono crollati? E la Cina è davvero in crisi?

Il 24 agosto la borsa di Shanghai ha registrato il picco più basso dal 2007. Questo giorno è stato definito il lunedì nero dei mercati cinesi.

Nel mese di agosto – in seguito alla decisione del governo cinese di svalutare lo yuan – le borse di tutto il mondo sono entrate in crisi, il prezzo del petrolio e delle materie prime è crollato, e si sono verificate svalutazioni a catena: un effetto domino che ha messo a dura prova l’intera economia globale.

Ma cosa sta accadendo realmente in Cina? L’economia del Paese è davvero in crisi? 

Il rallentamento della crescita in Cina 

1) È un dato di fatto che l’economia cinese non cresce più ai ritmi straordinari di un tempo, come invece accadeva fino a qualche anno fa, ma non si può ancora parlare di una vera e propria crisi in Cina.

L’attuale presidente cinese Xi Jinping ha sottolineato i cambiamenti in atto nel Paese, introducendo il concetto di Xin changtai – nuova normalità – riferendosi alla nuova fase in cui è entrata l’economia cinese. Le previsioni di crescita si sono abbassate al sette per cento. 

La principale sfida del governo di Pechino ora è quella di spostare il baricentro dell’economia sui consumi interni, contribuendo così alla creazione di un sistema di crescita più stabile rispetto a quello attuale, ancora fortemente vincolato alle variabili della domanda esterna.

2) Un altro dato da prendere in considerazione è l’indice Pmi (Purchasing managers index), che valuta l’attività manifatturiera di un Paese e riflette la capacità dell’acquisizione di beni e servizi.

Questo indice segnala uno spartiacque: quando è al di sopra dei 50 punti, segnala che il Paese è in crescita. Quando invece è al di sotto, indica una contrazione. In agosto il Pmi ha registrato un valore di 47,1 punti – la rilevazione peggiore degli ultimi sei anni – confermando così il rallentamento in atto nell’economia reale cinese. 

L’indice Pmi è anche sintomatico della crisi che sta vivendo negli ultimi tempi l’export cinese. Se si considera il periodo compreso tra gennaio e luglio del 2015, la Cina ha perso un valore pari al 7,3 per cento nell’export mondiale rispetto allo stesso periodo del 2014 – dato che in termini economici si traduce in 2,23 trilioni di dollari.

I settori principalmente colpiti dalla crisi sono quelli solitamente in overcapacity, ovvero quelli in cui la produzione è di molto superiore alla domanda interna ed esterna, come per esempio quella immobiliare, navale e delle energie rinnovabili su tutte le altre. I prezzi di produzione sono calati in Cina per 41 mesi consecutivi, e ciò non fa altro che confermare l’overcapacity che caratterizza buona parte dell’industria pesante cinese.

La svalutazione dello yuan 

Ed è proprio alla crisi dell’export che la maggior parte degli osservatori occidentali attribuisce le ultime manovre messe in campo dalla Banca centrale cinese.

L’11 agosto il governo di Pechino ha deciso di svalutare la propria moneta, facendo seguire nei giorni successivi altre due ondate svalutative che hanno portato lo yuan – la valuta ufficiale cinese – a perdere complessivamente un valore poco inferiore al cinque per cento. 

Secondo molti, si tratterebbe di una strategia attuata da Pechino per far acquistare competitività alle merci. Ma alle accuse occidentali il governo cinese ha risposto che il deprezzamento della moneta vuole essere un ulteriore passo verso la liberalizzazione dei mercati – un modo quindi per rendere la valuta cinese più orientata al mercato – e che la questione dell’export non è in alcun modo legata alle misure adottate.

La svalutazione dello yuan ha tuttavia allarmato gli investitori, contribuendo a confermare i timori relativi a un rallentamento in atto nell’economia cinese.

Il prezzo del petrolio 

La frenata dell’economia cinese – correlata a un minore bisogno di materie prime per il Paese – ha inoltre influenzato anche la quotazione del prezzo del petrolio.

Il crollo petrolifero ha trascinato con sé tutte le commodity e ha avuto un forte impatto sui Paesi emergenti esportatori, che di conseguenza hanno svalutato le rispettive monete per evitare di perdere la propria appetibilità sui mercati.

Insomma, un effetto domino che ha coinvolto borse, commodity e Paesi emergenti esportatori.

Il ruolo degli Stati Uniti

Anche gli Stati Uniti hanno un ruolo importante in questa storia. La Federal Reserve – la banca centrale americana – sta infatti da tempo pianificando un rialzo dei tassi di interesse: un eventuale aumento potrebbe far peggiorare la situazione economica nei Paesi emergenti, che sono fortemente indebitati in dollari

Tuttavia, la sera del 26 agosto il presidente della Federal Reserve of New York William C. Dudley ha detto che la recente crisi nei mercati finanziari costituisce un rischio per l’economia statunitense e che il rialzo dei tassi d’interesse, inizialmente previsto per il mese di settembre, non è urgente. Il commento di Dudley ha avuto ripercussioni positive nei mercati di tutto il mondo e le borse asiatiche hanno aperto in rialzo la mattina del 27 agosto.

A ogni modo, sebbene le turbolenze di agosto abbiano riportato alla mente le ansie della crisi finanziaria del 2008, è bene ricordare che oggi l’economia cinese è in piena fase di transizione: i vertici del governo di Pechino hanno infatti messo in campo politiche che mirano a cambiare il modello di crescita e di sviluppo del Paese, spingendo il gigante asiatico verso un’economia maggiormente basata sui consumi interni, e un mutamento di questa portata non può di certo avvenire nel giro di pochi mesi.

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