Schiave del proprio corpo
Le leggi contro l’aborto in Cile sono tra le più restrittive al mondo: l’aborto è sempre illegale, anche quando la donna è vittima di violenza sessuale
Belén, una ragazza cilena di Puerto Octay, aveva undici anni quando rimase incinta, in seguito alle continue violenze sessuali inflitte dal suo patrigno.
Pochi mesi dopo, una bambina originaria di Santiago, allora tredicenne, rimase incinta di suo nonno, un uomo di sessantasei anni accusato di aver commesso abusi sessuali nei confronti della nipote da quando lei ne aveva sei.
A entrambe le bambine fu negato l’aborto. Era il 2013. Oggi come allora in Cile non è cambiato nulla. I casi riportati non sono gli unici episodi di gravidanza in età minorile a seguito di violenza sessuale da parte di un parente.
Esistono innumerevoli casi di gravidanze indesiderate, indipendentemente dall’età della donna e dalla condizione in cui è avvenuto il rapporto, che si tratti di un abuso o meno. Il denominatore comune è sempre lo stesso: nessuna donna può abortire, in nessun caso.
Le leggi contro l’aborto in Cile sono tra le più restrittive al mondo: l’aborto è sempre illegale, senza alcuna eccezione.
In una sentenza della Corte suprema di giustizia cilena del 1963 l’aborto è stato definito come l’interruzione della gravidanza volontaria “fatta in modo malevolo”. In caso di aborto, saranno perseguibili legalmente tanto le donne consenzienti quanto i medici che l’hanno eseguito.
Fino al 1989 l’aborto terapeutico era consentito dalla legge cilena. Da allora, tuttavia, con l’ascesa del regime militare del dittatore cileno Augusto Pinochet, vige il divieto assoluto di interrompere la gravidanza.
Da allora i governi conservatori, per via anche della forte tradizione cattolica del Paese, non hanno voluto reintrodurre l’aborto terapeutico.
La vita delle donne e il loro benessere fisico e psicologico sono subordinati a quella del feto in gestazione. Secondo la legislazione cilena, la donna deve portare a termine la gravidanza in ogni caso, anche quando questa è frutto di terribili violenze sessuali o quando la gestazione e il parto possono mettere la sua vita a repentaglio.
Ciononostante, le donne continuano a ricorrere alle pratiche illegali per interrompere la gravidanza e in molti casi abortiscono da sole. Secondo i dati del rapporto annuale del 2013 sui diritti umani dell’Università Diego Portales, ogni anno si verificano circa 70mila casi di aborti volontari.
Il dottor Ramiro Molina, professore universitario cileno e fondatore del Centro di Medicina Riproduttiva e dello Sviluppo Integrale dell’Adolescente, stima che il numero ammonti addirittura a 140mila aborti l’anno.
Il modo più economico e accessibile per provocare un aborto volontario è l’assunzione di misoprostol, un farmaco utilizzato per trattare le ulcere, ora adattato all’uso ginecologico e riconosciuto dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms).
Il farmaco non è però acquistabile in nessuna farmacia del Cile. Pertanto, molte donne sono costrette a procurarselo all’estero o a ricorrere al mercato nero, dove i costi di una dose oscillano tra i 60 e i 180 euro.
I modi per interrompere volontariamente la gravidanza sono molti. Una campagna di sensibilizzazione mostra alcune donne intente a spiegare, attraverso finti tutorial, come provocarsi un aborto attraverso incidenti casuali, quali buttarsi dalle scale o sotto una macchina. La campagna evidenzia la disperazione e l’impotenza di fronte a una realtà che accomuna tutte le donne cilene.
Dal 1990 si è tentato più volte di modificare la legge. Il 31 gennaio la presidentessa cilena Michelle Bachelet ha presentato un disegno di legge per depenalizzare l’aborto terapeutico in tre casi: quando la vita della madre è a rischio, quando la gravidanza è frutto di violenza sessuale e quando il feto non ha possibilità di sopravvivere.