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L’ultima dittatura d’Europa

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Viaggio in Bielorussia, ultimo bastione dell'era sovietica

Fuori dalla finestra di un appartamento nel pieno centro di Minsk il buio della notte viene disturbato dalle grandi insegne luminose che pubblicizzano Coca Cola e Samsung. A prima vista non sembrerebbe un Paese comunista. E invece la chiamano l’ultima dittatura d’Europa.

Alexander Lukashenko è presidente dal 1994, quando la sua campagna elettorale anti-corruzione lo aiutò a spuntarla contro l’allora presidente Stanislaw Shushkevic. Da allora ha vinto ogni singola elezione. A volte è capitato addirittura che il suo ufficio stampa annunciasse i risultati prima ancora del termine delle elezioni stesse. Chi arriva nella capitale si sorprenderà quindi di non trovare neanche una sua foto, né all’aeroporto né per le strade della città.

Trovarsi in Bielorussia è come assistere ad uno spettacolo di magia: chi decide di rimanere uno spettatore passivo può anche avere l’impressione che sia tutto vero; chi preferisce invece investire un attimo del proprio tempo nel tentativo di seguire lo show ben presto si accorge che il trucco c’è, eccome.

Viale dell’Indipendenza, una delle vie principali di Minsk, ne è l’esempio emblematico. Nel giro di duecento metri si susseguono le vetrine di un paio di centri commerciali, un TGI Fridays e addirittura un Mc Donalds. Il ritratto del capitalismo. Peccato poi che qualche passo più in là ci sia un palazzo dai muri gialli con delle colonne imponenti sulla facciata. Nessun cartello spiega cosa sia, ma ci sono grappoli di telecamere che riprendono i dintorni da ogni angolo possibile.

È la sede del Kgb bielorusso. Da notare che mentre tutti gli altri paesi dell’ex-blocco sovietico si sono affrettati a cambiare nome ai propri servizi segreti, Lukashenko invece non ha mai sentito il bisogno di mentire alla propria popolazione. Il Kgb è lo stesso di una volta, di nome e di fatto. Basta provare a scattare delle foto all’edificio e subito due soldati escono dalle porte per esortare l’ignaro fotografo a cancellare immediatamente tutto quanto.

Ma quello che fa veramente venire i brividi, è ciò che nasconde questo palazzo giallo dietro alle sue invalicabili mura. Dalla strada è impossibile vederla, ma già attraverso Google Earth è possibile individuare il perimetro circolare dell’Amerikanka, la prigione più temuta dall’opposizione in Bielorussia. Venne architettata seguendo il progetto di una famosa prigione della Chicago anni Venti e apertamente ammirata da Stalin. Oggi è teatro di torture e trattamenti disumani verso i prigionieri politici. Negli ultimi anni ci sono stati rinchiusi diversi candidati alle elezioni presidenziali, tra i quali il leader dell’opposizione Andrei Sannikov ora in esilio forzato a Londra.

Casomai qualcuno avesse ancora dei dubbi basta girarsi di 180 gradi e rivolgersi verso il busto dedicato a Felix Dzherdsinksi, primo capo della Cheka, i servizi segreti dell’era Leninista. Voluto fortemente da Lenin stesso, Dzherdsinksi fu responsabile per la morte di migliaia di persone durante il “Terrore Rosso” che seguì l’ascesa al potere dei bolscevichi e per questo gli affibbiarono il soprannome di “Felix il sanguinario”. La presenza del busto davanti alla sede del Kgb non è certo una coincidenza.

Sempre nel raggio di pochi minuti si può raggiungere un altro luogo carico di significato per il regime: la fermata della metro Oktyabrskaya, teatro dell’attentato terroristico costato la vita a 15 persone. Nel giro di pochissimi giorni dal quel terribile 11 Aprile 2011 il regime incolpò due ragazzi: Vladislav Kovalyov e Dmitry Konovalov. Vennero processati per direttissima in quello che ricordò ai più un processo farsa dell’era stalinista. Confessarono entrambi. Poi uno di loro accusò il regime di esser stato torturato per ottenere la confessione. Vennero giustiziati tutti e due.

Il caso fece discutere sia in Bielorussia che in ambiti internazionali, anche se Ronald K. Noble, segretario generale dell’Interpol applaudì la rapidità con cui il sistema giudiziario aveva individuato e giudicato i colpevoli. Per una tremenda tradizione legale bielorussa i corpi delle persone uccise dallo Stato non vengono restituiti alle famiglie, ma vengono seppelliti in un luogo segreto. Lyubov Kovalyova aspetta ancora un corpo su cui piangere. Nel frattempo gira l’Europa per raccontare la sua storia e quella di suo figlio.

Di tutta questa storia è rimasta soltanto una lapide in marmo all’entrata della fermata Oktyabrskaya. Quasi tutte le persone che passano si inchinano e fanno il segno della croce. Tutto è tornato alla normalità. Si può acquistare un biglietto della metro, un piccolo gettone di plastica viola e fare qualche fermata fino a uscire in Piazza Lenin.

La statua di quest’ultimo regna ancora sulla piazza. La caduta dell’Unione Sovietica qui non ha prodotto la catarsi generale che invece altrove portava all’abbattimento fisico dei simboli dell’era comunista. Il Paese sembra non essere mai uscito dal suo lunghissimo inverno politico. Chissà poi cosa ne penserebbe il vecchio Vladimir Ilyich Ulyanov, detto Lenin, del regime di Lukashenko.

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