Il fotografo di Damasco che affronta il dramma della guerra col sorriso
Mohamad aveva uno studio fotografico nella capitale siriana. La sua storia nella seconda puntata della rubrica "Voci dalla strada" firmata da Carlo Brenner da Beirut
Voci dalla strada raccoglie le opinioni e la visione del mondo di gente comune. Non ha la pretesa di analizzare, ma vuole presentare diverse e molteplici verità, raccontate dalla voce essenziale e spontanea di chi vive la storia sulla propria pelle, senza facili e variabili categorizzazioni esterne.
Mohamad, Beirut
È il giovedì prima di Pasqua e nei quartieri cristiani di Beirut è tradizione andare a visitare sette chiese. Mi trovo in Rue Gouraud, nel quartiere Gammayzeh, feudo cristiano greco-ortodosso. È una zona della città piena di bar e gallerie d’arte di tutti i generi. È un bel quartiere, elegante, di quell’eleganza lacera, tipica di Beirut. Di fianco a un bar o a una galleria che potresti trovare identica in un ricco quartiere di New York, ci sono palazzi distrutti, crivellati di proiettili.
È il fascino della città ma è anche la testimonianza della totale mancanza del senso di bene comune dei libanesi. Ognuno si occupa del suo spazio, bar, libreria o ristorante che sia. Cerca di tenerlo pulito e di farlo al meglio, poi, di quello che c’è di fianco a lui se ne frega.
Entrando in una galleria per l’inaugurazione di una mostra incontro una faccia conosciuta, Mohamad.
Mohamad è un artista di Damasco che avevo già conosciuto nel 2016. È andato via dalla Siria quattro anni fa ed è appena riuscito a pagare la somma necessaria per non fare il servizio militare.
“Quanto ti è costato?”, chiedo. “Ottomila dollari”, risponde. “Devi essere lontano dal paese, con validi motivi, per almeno quattro anni e poi puoi pagare un riscatto”.
Un riscatto caro, certo, ma sono soldi spesi per salvarti la vita, una vita che un ragazzo di 31 anni non ha voglia di perdere per una guerra nella quale non crede. Mohamad la vede come me, come tutti i ragazzi europei: la tua religione è affare tuo, scegliti quella che vuoi senza imporla agli altri. Vuoi essere sciita, sunnita, alawita, cristiano, non importa, l’importante per Mohamad è continuare a fare le sue foto e i suoi quadri.
Ma la guerra in Siria non è solo religione, sono anche interessi economici e strategici contrapposti. È una lotta per il potere sia esterna che interna, insomma tutto molto lontano da un ideale per il quale morire.
Mohamad mi racconta divertito l’effetto di questa guerra sulla sua quotidianità: lui aveva uno studio a Damasco, uno studio dove ha iniziato a sviluppare le foto, cinquanta metri quadri in totale. Quando il quartiere della sua famiglia era sotto bombardamento tutti i suoi famigliari si sono rifugiati dal lui, undici persone.
“Ti rendi conto che palle avere tua madre, tuo padre, i tuoi zii e tutti i cugini tutti insieme in uno studio così piccolo?”. “Posso immaginare” rispondo, lui continua: “E poi non se ne volevano più andare, non ne potevo più!”, ride. Sono reazioni sane, di un ragazzo in gamba in una situazione drammatica. Un ragazzo che, in tutto e per tutto, potrebbe essere un mio fratello, potrei essere io stesso.
Affronta il dramma col sorriso, perché è questa la forza dell’uomo: non perdere la gioia nelle situazioni più drammatiche, senza piangersi addosso, trovando soluzioni.
Chiedo a Mohamad dell’attacco con il gas del 4 aprile. “Se fosse stato Assad sarebbe veramente stupido da parte sua”, risponde. Già, sarebbe stupido, forse addirittura troppo stupido visto che ormai la sua posizione non era più messa in discussione. Perché uccidere 80 persone in un modo così brutale quando sei già vicino alla vittoria?