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Home » Milano

A Milano l’Università va in carcere: “Così detenuti e studenti fanno lezione insieme”

Immagine di copertina
Il carcere di Bollate, Milano ANSA/MATTEO CORNER

Grazie a una convenzione tra la Statale di Milano e le carceri lombarde i detenuti hanno la possibilità di iscriversi a costo ridotto e di partecipare ai laboratori insieme agli studenti "esterni", che si impegnano anche come tutor dei neoiscritti. Il progetto sta riscuotendo grande successo, nonostante il Covid-19

La pandemia di Covid-19 ha portato alla luce diverse criticità che in precedenza venivano trascurate, in particolare sulle strutture residenziali: ospedali e Rsa, ovviamente, ma anche le carceri, dove non casualmente ci sono state delle forti tensioni. “I detenuti hanno provato la stessa sensazione di paura di tutti noi, ma senza ricevere adeguate informazioni”, spiega a TPI il professor Stefano Simonetta, autore del libro Utopia e carcere. “Non voglio certo giustificare le reazioni violente, ma va tenuto conto anche del fatto che per queste persone l’emergenza sanitaria ha rappresentato un ritorno al regime detentivo di vent’anni fa, annullando non solo le visite, ma anche alcune esperienze di socialità che sono state introdotte nel tempo”.

Una di queste deve il suo avvio proprio al prof. Simonetta, docente di filosofia all’Università Statale di Milano, in seguito al suo incontro con un detenuto albanese: “Mi ero recato presso il carcere di Bollate per fargli sostenere un esame e, al termine, mi ha raccontato delle difficili condizioni nelle quali si era preparato. Al di là della necessità di studiare di notte, con una piccola luce per non disturbare i compagni di cella, la cultura carceraria guarda con sospetto a queste velleità, considerandole un modo per conquistare il favore del direttore o del magistrato di sorveglianza”.

Dal caso singolo, si è arrivati a una convenzione tra la Statale, il più grande ateneo della città, e il provveditore delle carceri lombarde: “Un protocollo d’intesa tra Pubbliche Amministrazioni era per me un passaggio fondamentale per andare oltre le specifiche discrezionalità e l’allora Rettore della Statale lo ha condiviso con me”, prosegue il prof. Simonetta, “Nei vari istituti ci sono già moltissime esperienze di volontariato, anche di grande valore, ma tutte legate alla disponibilità dei singoli: maestri di musica, insegnanti delle scuole superiori e anche signore che insegnano l’arte del cucito. Noi volevamo invece dar vita a un progetto collettivo e siamo partiti dagli aspetti economici, abolendo tutte le spese possibili: oggi un detenuto che si iscrive alla Statale paga solamente i 156 euro previsti dall’imposta di bollo regionale, che non è abbattibile. Abbiamo messo un unico vincolo: che nei primi due anni si raggiungano almeno 18 crediti (pari a due/tre esami), per evitare che questa possibilità fosse utilizzata in modo solo strumentale”.

Dai cinque studenti ristretti che hanno iniziato il progetto, oggi gli iscritti alla Statale sono oltre 100, ai quali vanno sommati i detenuti che seguono i corsi presso altri Atenei. Ovviamente, il Covid-19 ha complicato molto anche il loro percorso di studi. “Inizialmente ci consentivano di entrare in carcere con un tampone negativo, ma adesso non è più consentito”, spiega il prof. Simonetta, il quale usa il plurale riferendosi non solo ai colleghi che tengono i laboratori presso gli istituti di pena, ma anche agli studenti esterni. Un tratto davvero particolare di questo progetto è che le classi sono miste in vari sensi: i detenuti frequentano i corsi insieme a studenti non ristretti, dei quali la maggior parte è composta da ragazze. Inoltre vengono invitati a partecipare anche i detenuti non iscritti all’Università, ma che hanno gli strumenti culturali per seguire le lezioni.

Le attività si svolgono in cicli trimestrali, con una presenza settimanale all’interno del carcere. E gli studenti esterni fanno davvero a gara per potervi entrare: “Ogni anno mettiamo a disposizione circa 100/120 posti, ma le richieste sono più del doppio. Ci sono studenti che arrivano dalla Svizzera, dal Piemonte o dall’Emilia Romagna: si alzano all’alba per poi sottoporsi ai rigidi protocolli di sicurezza e infine fare lezione insieme ai detenuti”.

Come si spiega questo forte interesse degli studenti per il progetto con il carcere? “Molti sono spinti dall’impegno sociale, ma altri non hanno alcuna esperienza di volontariato. Si tratta di una proposta formativa con tutti i crismi, ma decisamente al di fuori degli standard, grazie alla quale si possono cementare delle relazioni forti, che continuano anche al di là del percorso di studi”.

Anche la relazione tra studenti e detenuti è molto particolare: “Inizialmente prevale la diffidenza, da entrambe le parti. Le lezioni si svolgono in cerchio e le prime volte si formano due semicerchi ben distinti. Col tempo, diventa persino arduo distinguere tra chi è ristretto e chi no: anzi, abbiamo notato che spesso i detenuti sono molto meno garantisti dei ragazzi, che tendono a giustificare i loro reati con la loro estrazione sociale. C’è anche chi rimarca che, in fondo, rubare gli piaceva! Su questo devo dire che noi preferiamo non far sapere agli studenti le motivazioni per le quali i loro compagni di corso sono finiti in carcere, per evitare pregiudizi. Fa eccezione il carcere di Opera, che invece vuole che siano informati, per meglio tutelarli rispetto a possibili rischi. Certo, delle situazioni difficili ogni tanto si presentano: ad esempio quella volta che un detenuto di Bollate, nel corso di una lezione sul 41 bis, ha espresso delle posizioni molto dure su Falcone e Borsellino. Quella volta ho fatto davvero fatica”.

Oltre a studiare insieme ai detenuti, gli esterni hanno anche la facoltà di diventare loro tutor, sostenendo il percorso delle matricole. Anche in questo caso, si rende necessaria una selezione tra le tante manifestazioni di disponibilità: “Eppure, io stesso ancora mi stupisco del fatto che dei ventenni vadano 8/10 volte al mese in carcere per seguire i loro assistiti. Alcuni di essi sono al 41 bis e quindi non li vedranno mai in faccia, eppure li sostengono lo stesso, in base ai bisogni manifestati”.

I risultati sono decisamente incoraggianti: al momento sono circa una decina i detenuti che si sono laureati, ma considerando che l’esperienza è cominciata da pochi anni è più indicativo il dato della media dei voti per esami sostenuti, che non si discosta di molto da quella degli studenti in libertà. Circa il 30 per cento degli iscritti è composto da stranieri (in prevalenza balcanici, ma anche sudamericani e asiatici), con una forte eterogeneità dei livelli di partenza: “Ci sono pezzi grossi del crimine organizzato che sono già alla terza laurea, ma anche immigrati che a fatica hanno preso il diploma di scuola superiore in carcere e provano ad andare avanti”.

Altrettanto soggettivo è l’esito del percorso, perché chi ha di fronte a sé molti anni di detenzione preferisce prendersela con calma, mentre chi è vicino alla scarcerazione punta soprattutto a trovare lavoro. Che siano giovani o più maturi – ci sono anche over 70 – i detenuti che iniziano questo percorso hanno comunque a loro disposizione una chance non indifferente, che può essere colta per progettare un futuro di riscatto sociale o anche semplicemente per fare un’esperienza di socialità che altrimenti gli sarebbe negata. “Certo, comprensibilmente incide anche questa motivazione” – conclude il prof. Simonetta – “Non siamo mossi dal desiderio di salvare nessuno, ma semplicemente dalla convinzione che lo Stato debba garantire i diritti dei detenuti: anche se quello alla libertà lo hanno perso, quello all’istruzione va tutelato”.

Il prof. Simonetta con Lucia Castellano, ex assessora del Comune di Milano, nonché ex direttrice dei carceri di Alghero e Bollate, modelli di integrazione e reinserimento (foto da Facebook)

Leggi anche: Triennale, un concorso di idee per il carcere San Vittore: “Dalla bellezza nasce il cambiamento”

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