TPI a bordo della nave Sea Watch 3: “Alcuni migranti rifiutano cibo, il teatro della politica italiana non ci interessa”
Nel reportage di Valerio Nicolosi le storie dei migranti bloccati da settimane al largo di Malta, al centro delle spaccature politiche e diplomatiche in Italia e in Europa
Sea Watch – Il reporter Valerio Nicolosi è a bordo della nave carica di migranti Sea Watch 3, che dal 22 dicembre 2018 è bloccata in mezzo al mare in attesa di poter sbarcare in un porto sicuro. Questo è il suo reportage per TPI (qui tutti gli aggiornamenti sul caso Sea Watch).
Lunedì 7 gennaio 2019
La sala scelta per la conferenza stampa di Sea Watch a Malta è piccola e piena di libri in inglese, arabo e francese. Siamo nel centro storico de La Valletta, un continuo sali e scendi di vie che iniziano e finiscono nel mare.
Sono il primo dei giornalisti ad arrivare, mi apre una ragazza che parla un inglese molto british. “Qua facciamo corsi d’inglese per migranti, questa è la nostra libreria per loro. Siamo una associazione culturale e questa è una delle attività che facciamo”.
La mia curiosità deve essere stata evidente perché non avevo detto nulla, solo guardato. Piano piano arrivano anche altri colleghi, italiani e maltesi, e alla fine arrivano anche i rappresentanti della Ong tedesca. Giorgia Linardi, portavoce per l’Italia che proprio ieri ci aveva rilasciato una lunga intervista, Cris Grodotzki, film media manager di bordo, appena sbarcato dopo 2 missioni consecutive e Tamino Bohm, membro della missione aerea di ricognizione dei piloti volontari. Le facce sono stanche ma le voci decise.
“Veniamo da 16 giorni d’emergenza a bordo, non possiamo andare avanti così. Ci devono dare un porto e poi trattare sulla redistribuzione. Il teatro della politica italiana di questi giorni non ci interessa”. La portavoce è lapidaria e apre così la conferenza.
Cris era a bordo e racconta come sono andate le cose, rispondendo indirettamente alla accuse del ministro Toninelli, di come l’Italia e Malta non abbiano assegnato un porto sicuro mentre con la Guardia Costiera di Tripoli non ci sia stata interazione.
“Le condizioni a bordo sono state difficili, tante persone in una stanza piccola e il mare in burrasca”. Cris è un fotografo e film-maker volontario, ci siamo conosciuti a ottobre a bordo della prima missione di Mediterranea e ci siamo incontrati pochi giorni fa a bordo della Sea Watch 3.
Quello che vedo sul suo volto non è solo stanchezza fisica, è stanchezza mentale ed è amarezza per quello che sta succedendo. Riusciamo a fare un collegamento da bordo, a parlarci è il capo missione, Kim Heaton-Heater.
Di Kim ne ho parlato durante il primo reportage, quello da bordo. Anche la sua voce sembra diversa. Il nostromo inglese che conosco, quello che con un solo sguardo ti rassicura anche in condizioni di mare avverso, quello che ha compiuto centinaia di soccorsi in mare salvando migliaia di persone, è stanco.
“Alcune persone hanno smesso di mangiare, abbiamo dovuto fare un flebo a uno di loro. Il problema è psicologico, si lasciano andare ed è comprensibile”. C’è sconforto nonostante il tono deciso. Forse, se non lo avessi conosciuto e non avessi fatto già altre missioni con lui, non me ne sarei accorto.
Però adesso mi sembra chiarissimo. “Sea Watch 3 è una rescue boat, fa salvataggi in mare. Ogni ora persa in acqua maltesi è un’ora in più senza navi nella zona Sar. Non sappiamo quante barche siano partite, non sappiamo quante ne sono affondate”. Ce lo dice Tamino Bohm in chiusura di conferenza, come fosse una sorta di monito a tutti. Perché in ballo non ci sono solo le vite di queste 49 persone ma un intero sistema di accoglienza da chi scappa da guerra e miseria. Chissà se l’eco di questa chiosa arriverà fino a Bruxelles.
Domenica 6 gennaio 2019
Né donne, né bambini, né uomini. Le persone soccorse dalla Sea Watch 3 restano a bordo e la terra possono continuare a guardarla da lontano.
Il tweet del vice primo ministro Di Maio in cui dichiarava di essere pronto ad accogliere donne e bambini, invece di risolvere la cosa, l’ha complicata. Come spiega un articolo in esclusiva TPI c’era già un accordo tra i Paesi europei per la ripartizione.
Dodici persone sarebbero state accolte in Italia, ma l’uscita di Di Maio ha generato una reazione a catena.
A quel punto Salvini ha ripetuto il suo slogan che ormai tutti conoscono: “I porti sono chiusi” e la trattativa europea è tornata indietro in un attimo. In realtà un decreto di chiusura dei porti in Italia non c’è mai stato e in questi giorni sono stati i sindaci delle singole città a ricordarlo: Napoli, Palermo, Livorno sono state la prime ma subito se ne sono aggiunte altre.
“Quando ho parlato con il presidente dell’autorità portuale di Napoli, mi ha detto che a loro non era arrivata nessuna comunicazione in merito alla chiusura del porto, e che loro erano pronti ad appoggiarci nello sbarco delle Sea Watch 3”.
Ce lo racconta Enrico Papini, vicesindaco di Napoli e assessore al bilancio. Si è occupato lui di contattare sia l’autorità che gli armatori.
“Si sono messi subito a disposizione. Abbiamo 20 navi pronte a partire e per andare a prenderli. La cosa bella è che politicamente la pensano in maniera molto diversa, ma hanno risposto subito tutti positivamente. È la legge del mare e loro la conoscono bene.” Nella lettera del sindaco De Magistris al comandante della Sea Watch 3, si parlava proprio di queste 20 navi pronte a scortare quella della Ong tedesca fino al porto di Napoli.
Nei giorni scorsi il comune di Napoli ha lanciato sul suo sito un sondaggio su chi fosse disposto a prestare aiuto e in che modo. In 18 ore sono arrivate 2591 mail con 5804 proposte di aiuto. Le tipologie d’aiuto possibile erano 9 e andavano dall’assistenza sanitaria a quella abitativa, dal cibo ai vestiti fino ad arrivare all’educazione.
“È stata una grande prova di solidarietà arrivata da Napoli e da fuori, questi numeri hanno sorpreso anche noi. Siamo pronti oggi come lo eravamo a luglio, durante la vicenda Aquarius, soprattutto saremo pronti domani e nei mesi prossimi. Il porto di Napoli resta aperto.”
Sea Watch dal canto suo ringrazia ma al momento, per via delle condizioni meteo avverse e della stanchezza delle persone a bordo, non può arrivare a Napoli e quindi continua a stazionare vicino alle coste maltesi dove si trova anche la nave Prof Albert Penk della ONG tedesca See Eye, che ha a bordo 17 persone.
Entrambe sono in attesa che la politica risolva la questione ma a farne le spese sono le persone che si trovano a bordo ormai da tanti giorni. Oggi le due navi si sono incrociate e gli equipaggi si sono salutati. Un ragazzo, minorenne non accompagnato proveniente dalla Sierra Leone, che si trova a bordo della Sea Eye, ha riconosciuto due ragazzi attualmente bordo della Sea Watch 3.
Uno dei due è il suo miglior amico e ha conosciuto entrambi nelle carceri libiche. Si erano persi di vista al momento della partenza e l’emozione nel ritrovarsi è stata tanta. Chi parte non sa mai che fine faranno i proprio compagni di viaggio.
Lungo i percorsi dei migranti nascono amicizie importanti, spesso le uniche persone che si hanno vicino sono proprio i compagni di viaggio. Chissà se quando sarà fatta la redistribuzione tra i Paesi europei, si ritroveranno insieme. Stavolta senza essere torturati.
Qui il video con la testimonianza:
“Sono libica, di Tripoli, e oltre che dall’instabilità politica e della guerra, sto scappando da mio marito. Ha promesso di uccidermi e io sono scappata con mio figlio. Ho una laurea e parlo inglese. Voglio solo stare tranquilla con mio figlio, vivere serena. Perché l’Europa non trova un accordo?”
La storia di A. è semplice quanto disarmante. “Per tre volte ho preso un gommone ed è andata male. Il primo a settembre si è rotto poco dopo. Molti sono morti, io sono tra i pochi sopravvissuti”.
Da lì inizia un’odissea tra le carceri libiche, i ricatti e i riscatti da pagare. “La seconda volta era ottobre, una motovedetta dei miliziani libici ci ha preso e riportati indietro. Poi la volta successiva il gommone si è rotto ma per fortuna eravamo vicini alla costa e sono tornata e piedi. Oggi siamo qua, per fortuna. Mio figlio mi ha chiesto: ‘Mamma, non abbiamo i passaporti, perché non prendiamo un aereo?’ Come glielo spiego che siamo libici e a noi il visto non ce lo danno?”
Il figlio di A. ha 6 anni e lo incontro sul ponte della Sea Watch 3 mentre mangia.
È incuriosito dall’antivento del mio microfono, quello strano strumento che somiglia ad un gatto per via del pelo. Ci giochiamo insieme.
Si chiama M. e ha negli occhi la vita di tutti i bambini della sua età. A 6 anni bisognerebbe giocare, imparare la propria lingua e le prime nozioni di matematica. M. invece da 14 giorni si trova a bordo di una nave, insieme ad altre 32 persone recuperate dalla ong tedesca Sea Watch la mattina del 22 dicembre.
Il mare non è stato clemente per tutto questo periodo, non sono bastate le torte fatte dai volontari a bordo o i giochi inventati per far scorrere il tempo, in attesa che la politica prendesse una decisione. Dopo natale e capodanno, alla vigilia dell’Epifania, A. e M. sono ancora a bordo e non vedono via d’uscita.
In realtà una via d’uscita ci sarebbe, ed è qui a pochi metri. Si chiama porto di Malta e la sua costa è ben visibile.
“Abbiamo l’ok di Olanda, Germania e Francia per accogliere queste persone. Solamente in Germania ci sono 30 comuni che hanno aperto le porte, ma la situazione non si sblocca”, dichiara Giorgia Linardi, portavoce di Sea Watch, che ha seguito la delegazione di giornalisti e politici a bordo.
Da giorni sta curando la parte diplomatica di questa vicenda, assurda quanto complessa da sbrogliare.
A bordo incontro Kim, un amico conosciuto in un’altra missione. Lui è un nostromo inglese e soccorritore con grande esperienza. Nel 2016 ha deciso di imbarcarsi sulle navi umanitarie e mettersi a disposizione degli altri. Sguardo serio e sicuro, di quelli che in mare servono perché ti devi fidare di chi conduce le operazioni.
Con lui parlo a lungo, mi racconta come sono stati questi giorni, di come i volontari e le volontarie siano state bravissime nell’animare una situazione potenzialmente difficile da gestire.
“Questa nave è organizzata per fare soccorso in mare e ospitare le persone per qualche giorno, 3 o 4 al massimo. Possiamo tirare la corda e arrivare fino a 6 giorni, una settimana al massimo. Oggi siamo arrivati a due settimane ed è insostenibile”.
Kim me lo dice quasi come uno sfogo, un piccolo squarcio nel suo carattere di ferro. “Oggi ci sarà il cambio equipaggio, andranno via in molti e per le persone che abbiamo salvato, è un momento difficile”. L’ennesimo, mi verrebbe da dire.
“Loro resteranno qui e le persone con le quali hanno condiviso il mare andranno via, torneranno a casa, in Europa”. Effettivamente l’atmosfera è triste e molti volontari, nonostante la stanchezza data dai 21 giorni di missione, quasi vorrebbero restare.
“Uomo in mare, uomo in mare”. A urlarlo siamo io e altri due colleghi a bordo. All’improvviso vediamo uno dei migranti che si tuffa in acqua e inizia a nuotare.
La costa è vicinissima, siamo a meno di due miglia, mentre la stanchezza è tanta. Guardando le facce delle persone potrei dire che la stanchezza è inversamente proporzionale: più la Sea Watch 3 si avvicinava alla costa maltese, più la stanchezza mentale dei migranti soccorsi 14 giorni prima aumentava.
La situazione si risolve in alcuni minuti e molto tranquillamente. La voglia di libertà non può nulla contro l’acqua freddissima e la corrente. Poche bracciate, le urla dei compagni di viaggio e il ragazzo libico si ferma, guarda indietro, fa un gesto: Ok!
I soccorritori di Sea Watch si attivano e in pochi minuti il ragazzo è di nuovo a bordo. Vedo Kim entrare nella parte di stiva dove dormono i migranti, da oggi il capo missione è lui ed è suo compito gestire anche questi imprevisti. Capisco che stanno parlando tutti insieme, cercano di riportare la serenità e la calma a bordo.
“Noi lo abbiamo detto al comandante della nave, anche se in questo viaggio siamo diventati come una famiglia, siamo disposti ad essere divisi nei singoli paesi così è più facile per tutti accettarci, no?”. R. è algerino e la sua idea, purtroppo, non fa una grinza.
Il comandante della nave e l’equipaggio però hanno spiegato la situazione, raccontando dello stallo politico e diplomatico in cui si trova questa vicenda, che altro non è che la decisione sulle loro vita. “Quello che è certo è che non ci riporteranno in Libia, io non ci tornerei per niente al mondo. Mi hanno torturato, sono stato mesi in prigione e pregavo Dio che mi facesse morire. Ora per fortuna sono qua, anche se ci sentiamo ostaggi dell’Europa.”
Il cambio equipaggio e il passaggio di cibo, acqua e altri generi finiscono. Mentre iniziamo ad andare via c’è qualcosa di malinconico nell’aria. Le persone a bordo ci hanno raccontato le loro storie, si sono aperti sapendo che è importante raccontarle anche per provare a sbloccare la loro situazione. Mentre ce ne andiamo con le navi d’appoggio vedo Kim sul ponte che saluta e ci urla: “Ci vediamo presto, in qualche porto però!”.