Icona app
Leggi TPI direttamente dalla nostra app: facile, veloce e senza pubblicità
Installa
Banner abbonamento
Cerca
Ultimo aggiornamento ore 08:18
Immagine autore
Gambino
Immagine autore
Telese
Immagine autore
Mentana
Immagine autore
Revelli
Immagine autore
Stille
Immagine autore
Urbinati
Immagine autore
Dimassi
Immagine autore
Cavalli
Immagine autore
Antonellis
Immagine autore
Serafini
Immagine autore
Bocca
Immagine autore
Sabelli Fioretti
Immagine autore
Guida Bardi
Home » Migranti

Reportage TPI – Viaggio in Borena dove non piove da sei anni: ecco da dove partono i migranti climatici

Immagine di copertina
Credit: Daniele Napolitano / TPI

Fana ha 16 anni e Jemal 18. Vivono nel sud dell'Etiopia e lottano ogni giorno contro la siccità. Qui non piove da sei anni. Il bestiame è morto e migliaia di persone sono costrette a rifugiarsi nei campi profughi. Molti non hanno alternativa che venire in Europa

«Studio inglese perché devo andare via. Qui la vita non ha senso per noi». Fana ha sedici anni, quando la incontriamo sono le undici del mattino e sta scavando con una pala sotto il sole da almeno due ore. Lei e le altre sessanta persone si muovono senza sosta, come se fossero una colonia di formiche all’opera per il nuovo formicaio. Loro invece scavano quella che sembra una grande piscina di terra e che invece è una trincea per la guerra che stanno combattendo da sei anni, quando la pioggia ha smesso di cadere, la terra si è seccata e stagione dopo stagione, ha trasformato una regione verde in un’area arida.

La trincea che Fana e gli altri costruiscono non servirà a nascondersi dal nemico ma ad imprigionarlo appena si paleserà: un grande bacino idrico comunitario dove raccogliere l’acqua piovana. 

Fame, sete e instabilità
Fana vive nella regione di Borena, nel sud dell’Etiopia al confine con il Kenya.  Il problema qui è l’acqua, anche se arrivando in aereo non si direbbe: Arba Minch, la città che con il suo aeroporto fa da hub per tutto il sud e che in amarico significa “quaranta fonti”, è una città circondata dal verde e dal grande Lago Margherita, nome che ricorda l’infausto periodo coloniale italiano.

Ma l’Etiopia è grande, spesso viene definito “paese continente” e tra Arba Minch e Higo, dove vive Fana, ci sono almeno otto ore di macchina. Mentre percorriamo la strada e i chilometri scorrono fuori il finestrino, vediamo che il verde delle piante lascia il passo al rosso della terra, quella che Fana e gli altri stanno scavando.

Scavare il bacino idrico è indispensabile per il futuro ma è anche un modo per sostenersi dopo sei anni di siccità totale nei quali sono morti l’80 per cento degli animali della zona, soprattutto capre, mucche e dromedari. «Questa popolazione vive di pastorizia da secoli e perdere quasi tutti gli animali è stato uno shock senza precedenti non solo economico ma anche culturale», ci racconta Marcello Malavasi, capo missione in Etiopia dell’ong italiana CESVI, che da oltre un anno sta seguendo proprio il campo profughi di Higo. «Prima vivevano in micro villaggi in comunità con meno di cento persone, tutti avevano l’acqua e tutti avevano il bestiame, poi gli animali sono morti uno ad uno e anche le persone sono al limite di una carestia senza precedenti», racconta ancora Malavasi.

La sua ong insieme alla Cooperazione italiana hanno scavato un pozzo dal quale una pompa tira su quello che resta della falda acquifera e per i lavori comunitari hanno un progetto di “cash for work”, ovvero lavoro retribuito per le opere comunitarie, come il bacino idrico. «Hanno bisogno di lavoro ma anche di infrastrutture, se tutti vanno via non ci saranno né il bacino idrico né il grande pascolo che stiamo progettando. Se è vero che questa è una guerra contro il clima, devono farsi trovare preparati e quindi abbiamo deciso di investire una parte del budget sul loro lavoro qui». 

«Noi vivevamo bene, i miei figli andavano tutti a scuola e non avevamo problemi di cibo. Da tre anni invece abbiamo dovuto scegliere e abbiamo scelto Fana perché è la maggiore e la più studiosa, spero che un giorno possa avere un buon lavoro in Europa e aiutare i suoi fratelli», spiega Eba, la madre di Fana che ci ha raggiunto al bacino idrico. Anche Eba lavora, così come il marito e i fratelli di Fana, c’è bisogno di soldi per il cibo e per la scuola, che da queste parti è un investimento. Oggi, come dice Eba, non è possibile farlo per tutti e sette i figli, a sedici anni Fana ha una grande responsabilità e un destino segnato: partire, come i migliaia di giovani che ogni anno provano la lunga marcia dal Corno d’Africa, spinti dalla fame, dalla sete ma anche dalle bande armate e dall’instabilità politica.

“Svolta green”
Il premier etiope Abiy Ahmed Ali ha vinto il Nobel per la pace nel 2019 a seguito di un accordo storico con l’Eritrea, Paese da sempre rivale ma con il quale c’è ancora tensione per la regione del nord dell’Etiopia, il Tigray, che si trova al confine tra i due Stati e dove in questo momento c’è una guerra scatenata proprio da Abiy Ahmed Ali per reprimere le velleità indipendentiste.
A est invece le tensioni arrivano dalla Somalia, Paese fallito dove tra le bande che si contendono il territorio c’è anche al-Shabab, l’organizzazione affiliata ad al-Qaeda che rapì Silvia Romano. La zona di confine è una di quelle da evitare assolutamente.

Anche la capitale è accerchiata dai gruppi armati e per questo il governo ha lanciato un piano di collegamenti aerei capillari in tutto il Paese, per aggirare il problema, o meglio, passarci sopra.

In questi anni però l’Etiopia è stata vista dall’Occidente come modello di sviluppo dell’Africa, con articoli e dichiarazioni che incensavano il premier Abiy Ahmed Ali per la “svolta green”, secondo la quale entro un decennio in Etiopia ci saranno solo macchine elettriche, ignorando che oggi è costosissimo importare anche vecchie macchine usate a benzina o diesel. Oppure per il nuovo aspetto che sta dando alla capitale Addis Abeba: grattacieli che scalzano gli slam urbani, senza però trovare una collocazione per i poveri che li abitavano.

La guerra per l’acqua
Per concludere con le grandi opere lontano dalle città e anche in questo caso c’entra l’acqua: due grandi dighe sono state costruite recentemente e hanno portato da un lato povertà, dall’altro tensione diplomatica che rischia di sfociare in una guerra.
La prima è stata inaugurata nel 2016 e si chiamata Gibe III, sul fiume Omo, che ha messo in ginocchio tutti gli abitanti della valle che prende il nome dal corso d’acqua e che ha visto l’espropriazione dei terreni storicamente adibiti a pascoli; così, a causa delle inondazioni create dalla piena della diga, anche le zone limitrofe non sono più vivibili. Intere comunità hanno perso non solo il lavoro ma anche secoli di cultura e tradizioni, in cambio di promesse di servizi sociali e lavori che non hanno mai svolto.

L’altra diga invece ha avuto più risalto perché oltre a essere un’opera monumentale ha creato tensioni ben prima di essere costruita. La “Grande diga del rinascimento etiope” è stata inaugurata nel 2020, si trova a 15 chilometri dal confine con il Sudan e oggi regola il flusso del Nilo Azzurro, che a Khartoum si unisce al Nilo Bianco per il Nilo, che scorre fino al Mediterraneo.

Il Nilo Azzurro è più corto del Nilo Bianco ma apporta una maggiore quantità d’acqua e di limo e la perdita di afflusso creerebbe una reazione immediata del Sudan ma soprattutto dell’Egitto, Paese meglio organizzato militarmente e che nel settembre 2023 ha classificato come “atto ostile” il riempimento della diga. L’Egitto attinge al Nilo per oltre il 95 per cento del suo fabbisogno idrico e questa opera di fatto è un’arma di pressione costante, così come lo è per il Sudan. 

Tutti elementi che creano instabilità e spingono le persone a muoversi internamente al Paese, verso quelli limitrofi o verso altri continenti.

“Sogno europeo”
Che sia troppo o poca, l’acqua qui è il futuro delle guerre e della pace, delle migrazioni o di chi sceglie di restare. A Higo prima della siccità c’erano 80 persone che vivevano in 11 case fatte di legno e fango, oggi se ne contano tra le settemila e le ottomila e vivono tutte in baracche a forma di igloo, costruite perlopiù con foglie secche e plastica. Qui un blocco di ghiaccio, anche grande, si scioglierebbe velocemente sotto il sole delle ore centrali del giorno. «Anche la nostra vita è stata sconvolta ma siamo più fortunati degli altri e quindi abbiamo sempre accolto tutti», ci racconta un ragazzo di 25 anni, alto e vestito all’occidentale con jeans nuovi e camicia blu.

Si vede che non è come gli altri, che nonostante la siccità la vita per lui è andata avanti: «Abbiamo dei market in città ma abbiamo sempre preferito restare a vivere a Higo, anche noi soffriamo per la siccità ma il lavoro in città prosegue, seppur in quantità ridotta». Lui ha già tre figli, il suo sogno è farne 10 ma forse con la siccità si fermerà prima. «Sono piccoli, ho ancora tempo per decidere chi andrà a scuola di loro, quello che è certo è che prima della siccità ci sarebbero andati tutti», ci racconta mentre da un pentolino bollente versa del caffè turco, una vera rarità nel villaggio. «Vorrei che qualcuno dei miei figli se ne andasse da qui ma non in Europa, meglio in Kenya o in Egitto, più sicuro e più vicino ma so anche che le sirene dell’Europa suoneranno anche per loro un giorno. Qui il nostro sogno siete voi…»,  aggiunge prima soffiare un’ultima volta e poi bere il caffè.
“Il sogno europeo”, un’espressione che lungo le rotte migratorie si usa spesso e la pronunciano ragazzi esattamente come quello che abbiamo davanti ma che a differenza sua stanno perdendo tutto o non hanno mai avuto abbastanza, solo quel poco racimolato per mettersi in marcia.

Chi non ha i soldi per percorrere il Sudan, l’Egitto, la Libia e il Mediterraneo, pagando di volta in volta i trafficanti, si accontenta anche di fare il minatore in Kenya. Come Jemal, un ragazzo di 18 anni che incontriamo mentre scava anche lui la trincea contro il cambiamento climatico. «A 16 anni facevo il minatore, lavoravo 14 o 16 ore al giorno, ero distrutto, la sera mi restavano le forze per mangiare un boccone e addormentarmi», ci racconta in una pausa per bere. Il fisico è asciutto, tutto muscoli e nervi, e indossa dei jeans troppo corti e una canottiera rossa sbiadita. Non ha scarpe Jemal, mentre piccona i piedi diventano rossi e si fondono con la terra dura che lui stesso sta spaccando. «Io ho bisogno di andare via, chi resterebbe al mio posto?», chiede provocatoriamente. Nessuno, ovviamente, resterebbe al suo posto e credo che in pochi sarebbero sopravvissuti per qualche settimana nelle miniere come ha fatto lui per oltre un anno. Usa la parola “bisogno” non a caso, perché il suo è bisogno è una realtà, la necessità di una vita dignitosa.

«Quando sono scoppiate le tensioni in Kenya, in strada c’era la caccia allo straniero e ho preferito tornare, ma è solo per poco. La prossima volta andrò in Europa», aggiunge.

Lui come molti altri è stato un migrante interno ma adesso con la siccità e le inondazioni causate dal cambiamento climatico ha capito che l’Africa non è più il posto per lui.

Sa che gli serviranno più di 10 mila euro, una cifra impossibile per lui. «Mi fermerò strada per lavorare e guadagnare, magari ci metto di più ma arriverò, di questo ne sono certo», racconta, mentre il suo sguardo sembra davvero sicuro.

Questione di sopravvivenza
L’Etiopia inoltre è un Paese in forte crescita demografica: nel 2000 erano 67 milioni gli abitanti, oggi sono 123 milioni, un Paese giovane che ha creduto a un miracolo economico che non è mai arrivato. Europa o Israele sono le destinazioni preferite, terre dove quasi sempre sono considerati migranti economici, quelli che non hanno diritto alla protezione o all’asilo, perché, secondo le convenzioni internazionali, sei anni di siccità non equivalgono a una guerra, ignorando che nonostante le difficoltà sotto le bombe in qualche modo si può vivere, senza acqua no, così come quando in pochi anni ne arriva troppa tutta insieme.

Poi c’è l’Arabia Saudita, attraversando il Golfo di Aden, arrivando in Yemen. Un viaggio pericoloso quanto quello attraverso il Mediterraneo, dove le persone muoiono in mare o quando arrivano si ritrovano in mezzo a una guerra civile.

L’Etiopia così come gli altri Paesi africani non hanno gli strumenti per contrastare il cambiamento climatico, se non altro perché non sono loro che lo hanno creato e che lo stanno alimentando. Siamo noi a crearlo ma siamo noi a negarlo, negando soprattutto riparo a chi ne sta subendo le conseguenze. 

Nonostante questo Jemal e gli altri giovani partiranno, perché senz’acqua o in una situazione di eterna instabilità non si sopravvive.

Ti potrebbe interessare
Migranti / Migranti: il Viminale ricorre contro la sentenza del Tribunale di Roma per il rimpatrio di richiedenti asilo dall’Albania
Migranti / Migranti: il tribunale di Roma non convalida il trattenimento dei 12 richiedenti asilo trasferiti in Albania
Migranti / Migranti, naufragio nella Manica: muore un neonato
Ti potrebbe interessare
Migranti / Migranti: il Viminale ricorre contro la sentenza del Tribunale di Roma per il rimpatrio di richiedenti asilo dall’Albania
Migranti / Migranti: il tribunale di Roma non convalida il trattenimento dei 12 richiedenti asilo trasferiti in Albania
Migranti / Migranti, naufragio nella Manica: muore un neonato
Migranti / Migranti, naufragio nel Canale della Manica: almeno 12 morti
Migranti / Migranti, Onu: “Gli sbarchi in Italia sono aumentati del 7 per cento ad agosto rispetto al mese precedente”
Migranti / Esclusivo TPI – Diario di un salvataggio sulla rotta migratoria più letale del mondo
Migranti / Migranti, la denuncia dell'Oim: 399 morti e 487 dispersi nel Mediterraneo centrale nel 2024
Migranti / Migranti, dopo 7 anni si chiude il caso della nave Iuventa: tutti prosciolti
Migranti / Migranti, sbarchi anche a Natale: a Lampedusa approdate quasi 300 persone
Migranti / Migranti, accordo Roma-Tirana: l’Italia gestirà due centri in Albania