“Tutti la lodano, ma l’Accademia per i migranti di Bergamo distrugge le identità anziché integrare”, parla un operatore
L’Accademia per l’integrazione di Bergamo è un progetto che coinvolge Comune, Confindustria e Caritas insieme alla cooperativa Ruah: si basa su regole ferree ed è ispirato a un modello di vita militare
Sveglia alle sei del mattino. Lavoro gratuito e cellulari sotto chiave. Sono alcune delle condizioni da accettare per fare parte dell’Accademia per l’integrazione di Bergamo, un progetto di integrazione ideato e gestito dal Comune, Confindustria e Caritas insieme alla cooperativa Ruah.
L’iniziativa coinvolge trenta richiedenti asilo, provenienti per lo più dall’Africa subsahariana, ha la durata di un anno e serve, secondo il sindaco Giorgio Gori (Pd), a “rendere i migranti utili alla comunità e a prepararli al mondo del lavoro”.
Il progetto è stato accolto positivamente dalla comunità locale, e anche dai media, che hanno presentato l’Accademia come un modello valido di integrazione da contrapporre alla politica migratoria voluta dal ministro dell’Interno Matteo Salvini.
Grazie alla rete Bergamo Migrante Antirazzista, TPI ha intervistato Marco (nome di fantasia), un operatore della cooperativa sociale Ruah che ha partecipato all’iniziativa e che ha evidenziato gli aspetti critici del progetto.
L’Accademia per l’integrazione è un progetto di accoglienza molto politico e poco educativo. È stato ideato dal Comune di Bergamo, con Caritas e Confindustria, in risposta alle politiche fondate sulla paura dei migranti e come soluzione all’inadeguatezza dei progetti di accoglienza esistenti.
Al decreto sicurezza e all’eliminazione del permesso umanitario, alle critiche ai centri di accoglienza-pacchia, Bergamo ha contrapposto un progetto che cerca di integrare i richiedenti asilo ma il cui unico interesse è renderli adatti a lavorare in Italia.
Il Comune infatti propone un CAS organizzato secondo regole ferree e ispirato a un modello di vita militare. Al termine dell’anno di permanenza in Accademia, inoltre, agli “allievi” viene promesso un contratto di lavoro offerto da Confindustria, partner del progetto.
In Accademia la sveglia suona alle sei, seguono la pulizia della struttura e quella personale, lezioni di italiano tutte le mattine, 20 ore di volontariato alla settimana, sport e lezioni di canto: per prima cosa viene insegnato ai migranti l’inno di Mameli, talmente complesso che viene praticamente imparato a memoria, senza comprenderne il significato.
Il tempo è scandito dalle adunate, dai momenti di ritrovo e dalle comunicazioni di servizio, in perfetto stile militare. I migranti indossano un’uniforme, a turno si occupano dei compiti quotidiani e devono anche controllare che i propri compagni svolgano al meglio le mansioni loro assegnate.
I cellulari sono sottochiave per tutta la giornata e chi non rispetta le regole – alza la voce, pulisce male, lascia in disordine, non fa i compiti di italiano – riceve richiami disciplinari, perdendo la possibilità di uscire nell’unico giorno di libertà: la domenica.
Sì, i migranti sono liberi di aderire o meno al progetto. La prima selezione è fatta dagli operatori che cercano gli ospiti più meritevoli, cioè quelli che hanno mostrato interesse per la formazione, il volontariato, rispettosi delle regole ed educati. In seguito si passa al colloquio con il direttore del progetto.
L’Accademia viene presentata ai migranti per quello che è: un progetto della durata di un anno con regole molto ferree e attività obbligatorie da svolgere e un comportamento adeguato da mantenere, pena la punizione o l’esclusione dal progetto, al termine viene promesso loro un contratto di lavoro. Per loro non è facile stare in Accademia, ma è l’unica possibilità per avere un’occupazione.
Secondo gli ideatori del progetto l’Accademia renderà i migranti degni di lavorare e vivere al fianco degli italiani, convincendo allo stesso tempo la cittadinanza ad accoglierli in quanto buoni cittadini.
“Chi non darebbe un permesso di soggiorno ad una persona che pulisce le foglie dei nostri parchi?”, chiedeva il sindaco Gori a Piazza pulita.
Questo modello sostituisce il permesso umanitario con quello “per merito” per migranti esemplari, come gli allievi dell’accademia. Come a dire che ha diritto a rimanere in Italia chi si comporta da bravo immigrato e non chi nel proprio paese è a rischio a causa di calamità naturali o questioni umanitarie.
Mi indigna sentire Gori che dice che c’è bisogno di manodopera per i lavori che gli italiani non vogliono più fare. Ho incontrato migranti laureati, insegnanti di lingue, sarti, cuochi estremamente competenti, poeti, persone brillanti, creative e interessanti.
Questo modello li appiattisce a esseri ignoranti che puliscono le nostre strade, ricattati dall’esigenza di avere un documento per restare in Italia.
Sono molto preoccupato per il futuro di chi ha accettato di far parte dell’Accademia. L’ultima volta che ho visto i ragazzi che hanno aderito mi sono sembrati più chiusi e soli.
Soffrono perché non possono più frequentare la moschea e i mercati, né chiamare a casa più frequentemente. Ma tengono duro. Hanno paura di esprimere il loro disagio perché temono di essere esclusi dal progetto, soprattutto ora che la propaganda salviniana terrorizza.
Temo che questa condizione possa portare i migranti a un livello di stress troppo elevato e di conseguenza a crolli emotivi: una pressione così forte, in un contesto così rigido, può portare all’annullamento di identità già molto fragili. Trovo inoltre ingiusto che sia proposto un sistema militare a chi ha subito le violenze dei soldati, dei regimi dei propri paesi e dell’esercito libico.
Mi domando che progetti abbia il Comune per le donne e tutti coloro che in Accademia non ci entreranno perché traumatizzati della violenza subita durante il viaggio, dalla perdita di familiari o di persone care e che non sono pronti a una disciplina così rigida. Mi domando anche come si sentono quelli che in Accademia non entreranno perché non ci sono abbastanza posti.
Ho la sensazione che qui il concetto di integrazione, che presuppone uno scambio e una comprensione tra identità, sia stato sostituito da quello di assimilazione e annullamento della cultura di origine per far posto a quella del paese ospitante.
Chi crede che l’Accademia serva ad integrare i migranti, sembra essersi dimenticato che in precedenza molti richiedenti asilo sono riusciti a inserirsi nella nostra società senza bisogno di strutture e programmi simili a quelli proposti dal Comune di Bergamo.
Modelli di inclusione da seguire secondo me possono essere quelli di Riace e Caserta, che premiano l’autonomia dei richiedenti asilo. A Riace, per esempio, sono state valorizzate le piccole e medie botteghe di artigianato, alcune delle quali costrette a chiudere a causa del poco lavoro, in cui hanno invece trovato un impiego i richiedenti asilo.
Grazie a questo progetto anche gli abitanti di Riace che erano stati costretti a lasciare la loro città sono stati incentivati a tornare nel paesino calabro. Nel caso di Bergamo, gli esempi migliori di integrazione sono quelli che non hanno avuto bisogno di intermediazioni, ma che si sono realizzati tramite i rapporti che i richiedenti asilo hanno instaurato con i residenti, tanto giovani quanto anziani.
Grazie a questa rete di relazioni i migranti hanno anche trovato lavoro in base alle loro competenze. Al di là del singolo modello che le amministrazioni locali possono adottare, è importante iniziare a pensare a chi arriva in Italia come una persona da sostenere e non solo da integrare annullandone la soggettività.