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Home » Esteri

“Le donne devono prendere parte alla rivoluzione in ogni paese”. Parla Selay Ghaffar, la protagonista afgana di I Am the Revolution

Lotta, fatica, resistenza e tanti sacrifici. Ecco la ricetta della portavoce di Hambastagi per sconfiggere il fondamentalismo islamico e l’occupazione Usa

Capelli scurissimi e sciolti, poco trucco, jeans blu. Il pullover grigio che indossa è attraversato da una striscia arcobaleno che si appoggia sulle spalle. Ai piedi, un paio di pantofole rosse.

“Queste non le inquadri con la telecamera, giusto?”, scherza subito dopo essersi presentata. Potrebbe sembrare una 35enne come tante mentre prende posto su un divano bianco nella sede milanese di Cisda – il Comitato italiano per il sostegno delle donne afgane – per farsi intervistare da TPI, ma la sua storia è fuori dal comune.

Lei è Selay Ghaffar, una delle protagoniste di I Am the Revolution, il documentario a firma Benedetta Argentieri ora nelle sale italiane del circuito Movieday.

È la portavoce di Hambastagi, il Partito della solidarietà afgano fondato nel 2004. Si tratta dell’unico movimento politico laico a Kabul e dintorni: tra i suoi obiettivi ci sono la sconfitta del fondamentalismo islamico, l’affermazione del secolarismo a livello statale, l’educazione e l’emancipazione femminile. La giovane afgana è la prima donna che sia mai stata eletta per ricoprire un ruolo simile.

Essere donna in Afghanistan. Una scelta che le è valsa minacce di morte da parte degli avversari politici e una vita sotto scorta. “Non è facile fare politica quando i tuoi avversari sono brutali, misogeni. Ricevo minacce per lettera, via email. Hanno provato a rapirmi, a uccidermi. Hanno cercato di fermarmi, di ridurmi al silenzio attaccando la mia casa, la mia auto, il mio ufficio. Sanno che la mia voce è anche quella del 99 per cento degli afgani che ancora restano in silenzio, per questo vogliono farmi tacere”, racconta.

“In molti sostengono che l’Afghanistan sia il luogo peggiore dove nascere donna. È vero”, ammette. “Ma ho ragione di sperare che un giorno le donne afgane saranno libere e che nel mio paese non ci sarà più l’occupazione Usa, questa è già una soddisfazione”, spiega.

Per un attimo mi guarda dritto negli occhi, poi riprende: “Quando il mio partito ha cominciato la sua attività, eravamo 700 persone circa. Ora in tutto il paese ci sono più di 41mila membri attivi. Tantissime donne si sono unite al nostro movimento. Questo significa che la nostra politica, i nostri sforzi stanno funzionando”, commenta soddisfatta.

L’occupazione militare Usa. È convinta che l’unica soluzione ai problemi della sua terra sia una rivoluzione popolare, contro i governanti fondamentalisti e contro le forze militari Usa che occupano la zona dal 2001: “Sono arrivati in Afghanistan col pretesto della guerra al terrorismo, ma negli ultimi 18 anni l’hanno trasformato in un gigantesco cimitero per la popolazione inerme. I cambiamenti che ci sono stati sono superficiali, propagandistici, solo per mostrare qualche risultato alle altre grandi potenze. L’occupazione americana, supportata dalla Nato, ci ha resi un campo di battaglia per riaffermare interessi internazionali e regionali”, denuncia.

“Siamo il paese che produce la maggior parte dell’oppio in tutto il mondo – più del 90 per cento del totale – e secondo gli Stati Uniti il 12 per cento della popolazione è dipendente da droga. L’MI6 e la CIA – le agenzie di spionaggio per l’estero di Gran Bretagna e Stati Uniti – sono i principali controllori di droga in Afghanistan, questo è il motivo per cui vogliono essere sul territorio”, precisa.

Tutto ciò mentre per le donne locali stupri, omicidi, esecuzioni capitali in piazza e rapimenti sono all’ordine del giorno. Si stima che l’87 per cento della popolazione femminile subisca violenze quotidiane, mentre solo il 14 per cento ha accesso a scuola.

Da vittime a rivoluzionarie. “Le donne afgane sono state le prime vittime di guerra e violenza. Negli ultimi 40 anni sono state private di tutti i loro diritti. Se vogliono porre fine alla violenza, devono faticare e combattere. Ma noi non siamo più vittime”.

Il documentario di Argentieri si apre con questa dichiarazione di Ghaffar. Una rivoluzione in prima persona, quindi, come nel titolo della pellicola. Partendo dalle piccole cose: “In un paese occupato, con un governo fantoccio degli Usa e dell’Occidente, qualsiasi conquista è una rivoluzione. Se una donna può andare a scuola, è una rivoluzione. Riuscire a organizzare una manifestazione di piazza contro un governo fondamentalista, è una rivoluzione”.

“Far capire alla gente che l’unica soluzione è scendere in strada e reclamare i propri diritti, è una rivoluzione. Quando lavori con le comunità locali e rafforzi la loro coscienza politica, è una rivoluzione”, fa notare la giovane leader.

Lotta, sacrificio e resistenza. Per questa ragione tra le parole che ripete più spesso c’è struggle, un lemma anglofono che significa lotta, ma anche sforzo e sacrificio.

Sì, perché – come ribadisce più volte ai microfoni di TPI – “la storia nel mondo ha dimostrato che nessuna rivoluzione ha luogo o ha successo senza sacrifici, sia di uomini che di donne”. E ancora: “Credo che nessuna rivoluzione avverrà o avrà successo senza la partecipazione femminile. Le donne devono prender parte alla rivoluzione in ogni paese”.

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