Scandalo Csm, i penalisti a TPI: “Bisogna ridurre il peso politico delle procure”
Intervista a Gian Domenico Caiazza, Presidente dell'Unione delle Camere Penali Italiane
Scandalo Csm penalisti
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha presieduto oggi il plenum del Consiglio Superiore della Magistratura (Csm), finito nella bufera dopo il caso Palamara e la questione delle nomine delle procure, in cui è coinvolto anche l’ex ministro Pd Luca Lotti.
TPI ha intervistato sull’argomento Gian Domenico Caiazza, Presidente dell’Unione delle Camere Penali Italiane (UCPI), organizzazione che rappresenta gli avvocati penalisti.
Il quadro si può giudicare certamente sconcertante, ma non perché sia sorprendente. Noi l’abbiamo definito “la scoperta dell’acqua calda”.
Nessuno può seriamente sorprendersi di quanto emerso. Il governo delle logiche correntizie è ben noto e sui rapporti tra magistratura e politica c’è una grande ipocrisia, se ci sorprendiamo di ciò che emerge.
Il punto vero è che la carica di capo procura di quella importanza è ormai una carica politica, perché l’azione penale esercitata dalle procure è manifestamente discrezionale.
Addirittura i pubblici ministeri, che sono impossibilitati a dare seguito all’obbligatorietà dell’azione penale – un fatto impossibile fisicamente – sono esplicitamente facoltizzati a indicare delle priorità.
Quando il titolare dell’azione penale ha la facoltà di indicare la priorità nell’esercizio dell’azione vuol dire che quella è diventata discrezionale. Poiché queste priorità se le fissano da soli, i procuratori fanno delle scelte politiche. Non lo diciamo noi, lo diceva già Zagerbelsky nel 1993.
Attorno a cariche politiche così forti, con un potere così squilibrato rispetto agli altri poteri dello Stato – perché basta iscrivere o non iscrivere una notizia di reato a carico di un ministro, un sottosegretario, un presidente della Regione, per far cadere governi e giunte regionali e produrre ricadute sui mercati finanziari – sorprendersi che si venga a patti con la politica su queste nomine a noi lascia francamente sconcertati. Noi non ci accodiamo a questo coro di stupore.
Ognuno si ritaglia i suoi spazi di verginità: non essendoci un trojan che ci racconti come sono state nominate altre cariche ognuno dice la sua.
Noi diciamo invece che il problema è di sistema, che bisogna intervenire con una radicale riforma dell’ordinamento giudiziario, in cui venga ridotto il peso politico delle procure, non la loro indipendenza. Se pretendi l’indipendenza non puoi esercitare un potere politico.
La nostra proposta di riforma costituzionale per la separazione delle carriere, che è in discussione nella commissione Affari Costituzionali, forse è avversata proprio per questo, perché tende a ridurre il peso politico delle procure.
Anche perché dividendo le carriere i pm – che rappresentano il 20 per cento del corpo elettorale della magistratura – non potrebbero più esercitare il loro potere immenso anche di rappresentanza politica.
Consideri che sono sempre pm i presidenti dell’Anm, tranne Grasso che è durato due mesi. Eppure rappresentano il 20 per cento dell’elettorato.
Le procure hanno un peso esagerato, sia nella società sia nella magistratura. La nostra proposta ridurrebbe l’influenza degli uffici della procura su tutto il resto della magistratura.
Proponiamo anche la riforma dell’obbligatorietà dell’azione penale, nel senso che rimarrebbe obbligatoria ma i criteri di priorità, trattandosi di una scelta schiettamente politica, sarebbero riservati alla legge, quindi al parlamento, che ne risponde all’elettorato.
Con i pubblici ministeri organizzati in un proprio Consiglio superiore, e il resto dei giudici in un proprio autonomo Csm e con l’equiparazione della componente non togata all’interno di questi due Csm (oggi è due terzi togati e un terzo laici, invece noi chiediamo che sia 50/50) si spezzerebbe il predominio correntizio assoluto, si ridurrebbe il potere anomalo nel sistema democratico dei capi delle procure e dei pubblici ministeri in generale, e questo sarebbe un passo avanti importante alla soluzione del problema.
Attualmente nominare il capo procuratore di Roma significa affidare un potere immenso a quell’ufficio, quindi immaginare che non si venga a patti è difficile.
Noi siamo d’accordo ad abolire le cosidette porte girevoli, però vorremmo sentire una parola di Salvini sul tema dei ‘fuori ruolo’, che è la cosa più incredibile. Nessun sistema giudiziario di altri paesi del mondo permette una cosa del genere.
Si parla di indipendenza della politica e poi non si dice niente del distacco fuori ruolo di 200 magistrati che vanno a costituire il sistema nervoso dei ministeri più importanti, quindi del potere esecutivo, a cominciare dal ministero della Giustizia, che è completamente in mano ai magistrati.
C’è una commistione importante, perché vengono concordati con la politica e con le correnti dell’Anm, che col “bilancino” li manda qua e là. Non è uno scendere a patti con la politica questo? Si pretende che la politica non chieda un prezzo su questo? I ruoli funzionariali affidiamoli a funzionari dello Stato, che non siano magistrati.
Sulla durata del processo penale noi abbiamo lavorato col ministro e se trasferiranno nella legge delega le conclusioni a cui siamo arrivati in quel tavolo, sarà una buona riforma. Ma che c’entra questo col Consiglio superiore della magistratura? Sono discorsi che non hanno niente in comune.
Se vogliono cronologicamente occuparsene insieme le facciano, ma secondo me si rischia una gran confusione: un mercato dove io cedo su questo ma poi ti vengo incontro su quest’altro. Secondo noi le questioni vanno tenute distinte.
Non è il primo caso e non sarà l’ultimo. Su questo abbiamo una posizione durissima, gli avvocati non vanno intercettati neanche indirettamente. Sono vicende che solo in un paese con scarsissima cultura delle garanzie possono succedere.
Non perché il difensore debba avere un porto franco: se è lui ad essere indagato è giusto intercettarlo, se è il suo cliente a essere intercettato, quando parla con il proprio legale bisogna interrompere l’ascolto. È quello che prevede la legge, che però nell’interpretazione della giurisprudenza – inclusa quella della Corte di Cassazione – viene sistematicamente violata.