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“Chiudere i porti italiani non è la strada giusta e costerebbe vite umane”: parla Medici Senza Frontiere

Immagine di copertina
Credit: EFE/Medecins Sans Frontieres

Tommaso Fabbri, capo missione della Ong Medici Senza Frontiere in Italia, spiega a TPI quali potrebbero essere i risvolti di alcune soluzioni ipotizzate durante i primi vertici informali internazionali sull'emergenza migranti

La mattina del 4 luglio 2017, la Vos Prudence, nave appartenente alla flotta della Ong Medici Senza Frontiere è rimasta bloccata per alcune ore al porto di Palermo per questioni burocratiche.

Doveva salpare il 3 luglio, ma nel corso di controlli la Capitaneria di porto palermitana aveva contestato la regolarità della documentazione presentata dal nuovo direttore di macchina, chiamato a sostituire un collega sceso nel capoluogo siciliano per motivi familiari.

Una volta risolto il problema burocratico la Vos Prudence è potuta ripartire.

“È stato solo un problema amministrativo e abbiamo dovuto aspettare l’ok della capitaneria di porto. Si è trattato di una problematica che si è ripetuta in episodi simili, capisco che il momento politico fa pensare subito ad altri tipi di situazioni ma non è così. Non avremmo avuto problemi a parlarne”.

Lo spiega a TPI Tommaso Fabbri, capo missione di Medici Senza Frontiere in Italia, con il quale abbiamo cercato di fare chiarezza anche in merito alle ultime vicende di cronaca che vedono al centro dell’attenzione mediatica e politica l’operato delle organizzazioni non governative che soccorrono i migranti in mare.

Dal vertice informale del 2 luglio tra i ministri dell’interno italiano, francese e tedesco fino all’incontro previsto per giovedì a Tallinn nel quale si discuterà, secondo l’agenda, di una nuova regolamentazione per le azioni e i finanziamenti alle Ong: cosa sta succedendo?

Aspettiamo di vedere i dettagli della situazione, i toni ci preoccupano molto perché ancora una volta si mette l’accento su un codice di comportamento delle Ong e non si guarda al vero problema che sono le persone che scappano dalla Libia. Parliamo di individui in condizioni tremende che rischiano la vita sui barconi della morte, coscienti di farlo, e in questo contesto si parla di regolare le Ong, di regolare i flussi, e ancora una volta non si parla di trovare dei canali sicuri per far arrivare le persone in posti dove possono trovare protezione. Neanche si parla di azioni simili a quelle che facciamo noi di ricerca e soccorso.

Tra le opzioni al momento paventate ed emerse in modo ufficioso dal vertice di domenica, quali di queste vi preoccupa? Cosa cambierebbe per voi?

Molte azioni già le facciamo, ci coordiniamo con la Guardia Costiera italiana, sempre; tutte le azioni che facciamo vengono svolte solo dopo che ci viene dato il consenso. È successo pochissime volte che siamo dovuti intervenire in acque libiche e solo perché ce l’ha chiesto la Guardia Costiera. Quando si inizia a parlare di non poter trasferire i migranti a determinate unità o di non poter sbarcare in certi porti, a noi preoccupa soprattutto la situazione delle persone che trasportiamo.

Cosa può accadere?

Si possono creare situazioni difficili da gestire, come ci è successo già quest’anno come le 1.500 persone trasportate a Napoli perché c’era il G7. Quando ci si trova in queste circostanze si sommano due problematiche: si è già di fronte a una situazione di difficoltà interna alla quale si aggiunge quella esterna. Gli sbarchi si rallentano molto e le imbarcazioni si trovano a girovagare per il Mediterraneo. Pensiamo alle persone con quadri clinici preoccupanti, le loro condizioni si aggraverebbero senza poter prestare un più efficiente soccorso su terra.

Cosa vuol dire trovare un porto chiuso?

Significa non solo affrontare problematiche di tipo medico, ma anche dover gestire la folla all’interno della nave, prestare attenzione all’approviggionamento di cibo e di beni essenziali che dopo molti giorni possono scarseggiare, ma soprattutto se si sta più tempo prima di sbarcare ci vuole anche più tempo per arrivare nella zona Sar, ovvero quella di ricerca e soccorso. Zona che così resterebbe più tempo scoperta con maggiori probabilità di naufragi e morti.

Perché tanta attenzione sulle Ong?

Guardare solo alle Ong significa avere una visione miope del vero problema. Perché i paesi membri dell’Europa parlano solo di questo e non di un corridoio umanitario, di passaggi sicuri? Non serve solo un codice di condotta per le Ong, ma anche un codice di condotta dell’Europa. I paesi membri cosa sono disposti a fare? Noi non vogliamo restare a tutti i costi nella zona Sar, se ci fosse un’Europa con un assetto pro-attivo e dedicato per creare dei passaggi legali e sicuri per le persone non ci sarebbe bisogno del nostro intervento, stiamo solo mettendo un cerotto su una ferita che non abbiamo provocato.

Invitiamo coloro che interverranno a Tallinn a trattare questa problematica in questa prospettiva.

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