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Da bioeticista vi spiego perché il caso di Charlie è un crudele accanimento giudiziario

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Luisella Battaglia, membro del comitato nazionale per la bioetica, evidenzia alcuni dei quesiti morali sulla vicenda del bambino britannico affetto da una rara e grave malattia genetica

“Lei se la sentirebbe di negare a una persona che sta morendo una possibilità di salvezza, per quanto assolutamente improbabile?”.

Questa domanda la pone a TPI la bioeticista Luisella Battaglia, professoressa ordinaria di filosofia morale e bioetica all’Università degli studi di Genova e al Suor Orsola Benincasa di Napoli, nonché membro del comitato nazionale di bioetica del Consiglio dei ministri.

Il quesito posto dalla dottoressa Battaglia è solo uno dei tanti che il caso di Charlie Gard ha sollevato in questi giorni.

Charlie Gard è un bambino londinese di 10 mesi cui è stata diagnosticata la sindrome da deplezione del DNA mitocondriale. Si tratta di una malattia estremamente rara, che finora ha colpito solamente 16 bambini in tutto il mondo e che causa un progressivo indebolimento muscolare.

Dopo aver scoperto la malattia, Connie e Chris, i genitori di Charlie, iniziano disperatamente a fare ricerche e a contattare centri di ricerca e ospedali nel mondo.

Dagli Stati Uniti arriva una risposta: una ricerca del 2014, svolta alla Columbia University di New York, sembrerebbe apportare miglioramenti nei topi affetti da malattie mitocondriali di un gruppo di mutazioni differente. Sia i genitori che l’equipe dell’ospedale dove è in cura Charlie – il Great Ormond Street Hospital di Londra – vogliono tentare la sperimentazione presso la struttura statunitense.

La situazione cambia quando il quadro clinico del neonato si aggrava in seguito al manifestarsi di un’encefalopatia che gli procura un danno cerebreale irreversibile. Inizia un battaglia legale tra i genitori e l’ospedale britannico. L’equipe medica valuta la malattia di Charlie in fase terminale e si oppone al trasferimento negli Stati Uniti sostenendo di voler tutelare l’interesse del bambino, mentre i genitori vogliono tentare qualunque possibilità.

Il 28 giugno 2017, dopo tre diversi livelli di giudizio, la Corte europea per i diritti dell’uomo (Cedu) di Strasburgo stabilisce che i tribunali britannici hanno il diritto di autorizzare la sospensione delle cure.

I macchinari che tengono in vita il neonato dovevano essere staccati il 30 giugno. L’ospedale londinese ha però rimandato di qualche giorno tale procedura, concedendo ai genitori di trascorrere qualche momento in più con il bambino.

La prima questione che il caso di Charlie pone – e per la quale la vicenda ha destato così tanto interesse in tutto il mondo – riguarda il conflitto tra genitori, equipe medica e giudici nello stabilire chi sia il vero soggetto legittimato a prendere decisioni nell’interesse del bambino, quello che in gergo si chiama “child’s best interest”.

“Chi è interprete del best interest del bambino? I genitori, i medici, la giustizia? Il caso di Charlie, così delicato e complesso, è stato trattato come un conflitto tra poteri e diritti, nel quale ha prevalso il diritto del più forte”, spiega la bioeticista.

“Non si è realizzata quell’alleanza terapeutica tra genitori e medici di cui si parla tanto. In questi mesi i medici non sono riusciti a farsi comprendere da Connie e Chris, realizzando di fatto una sconfitta della comunicazione in cui tutto è stato affidato ai giudici, mentre i genitori sono stati completamente deprivati di autorità. L’uno contro l’altro armato: i giudici contro i parenti, una situazione che lascia molta amarezza. Anziché essere impiegati su fronti opposti, dovevano essere uniti nell’interesse del bambino”, prosegue la professoressa Battaglia.

– LEGGI ANCHE: Da dottoressa cattolica vi spiego perché sul caso di Charlie medici e giudici hanno fatto la scelta giusta

Un secondo possibile terreno di riflessione riguarda l’accanimento terapeutico che i medici dell’ospedale di Londra e la sentenza della Corte di Strasburgo sostengono abbiano voluto evitare a Charlie.

“L’accanimento terapeutico è, per definizione, l’ostinazione in trattamenti da cui non ci si può ragionevolmente aspettare né guarigioni, né un miglioramento della qualità della vita, quindi qui siamo davanti a un caso di questo tipo, si rifiuta l’accanimento terapeutico”, spiega Battaglia.

“Non si parla di eutanasia, non sembra possibile e su questo c’è un accordo generale: l’accanimento è considerato un male su cui sia la bioetica laica che quella cattolica sono d’accordo”.

“Per Charlie”, prosegue la professoressa, “si tratta di cessazione di cure che vengono considerate inutili e che provocano ulteriore sofferenza al bambino. Prevale il child’s best interest, inteso come l’interesse del bambino di non soffrire più, sottoponendolo altrimenti a cure che prolungherebbero soltanto la sofferenza”.

Ma su tale scelta la bioeticista è perplessa. “La sicurezza con cui le corti inglesi e quella europea hanno sentenziato che si trattasse di accanimento terapeutico è incrollabile”, spiega Battaglia. “Ma di fronte a tale sicurezza io ci vedo una specie di accanimento, questa volta giudiziario, che sta nel sottrarre ai genitori la possibilità di farli sentire interpreti delle volontà del figlio. Era necessaria una maggiore misericordia dinanzi al loro ruolo”.

Secondo Battaglia, c’è qualcosa in questa vicenda di profondamente disumano, un accanimento legislativo e giudiziario.

“Il caso di Charlie esige una delicatezza, in relazione alla sua complessità: non si tratta di tagliare con l’accetta, come sembra abbiamo fatto”, sostiene la bioeticista. “Ci voleva una delicatezza estrema, anche per accompagnare questi genitori nel percorso di accettazione di quella che si è valutata come la decisione più saggia, tenendo conto della loro grande sofferenza. Bisognava persuaderli, convincerli, non inchiodarli con una sentenza”.

“Era necessaria una maggiore comprensione delle ragioni del cuore: un buon giudice, come un buon medico le deve intendere”, conclude su questo fronte Battaglia.

L’ultimo dibattuto punto riguarda proprio il lato più umano ed emozionale della vicenda, di cui non si può non tenere conto.

“C’è una grandissima commozione e pietà per la famiglia, e sono sentimenti che dobbiamo rispettare, in qualche modo il dolore dei genitori non può essere sottovalutato”, prosegue Battaglia. “Il loro dolore non va considerato come qualcosa di irrazionale, ma come un sentimento che resiste a tutto questo. Abbiamo visto due giovani che hanno vissuto con una straordinaria intensità questa vicenda, entrambi andavano maggiormente accompagnati”.

Per la bioeticista c’è modo e modo di applicare una sentenza.

“Questo mi è sembrato un modo crudele, quasi a voler educare i genitori, quasi che la sentenza avesse un valore educativo, quasi che si voglia insegnare così a non patire, a non commuoverci, a non soffrire, ad accettare la sconfitta”, conclude il membro per il comitato nazionale per la bioetica. 

“Lo stesso dicasi per quanto riguarda la fermezza con la quale si è esclusa la terapia sperimentale: è vero, non promette una guarigione, era un tentativo disperato, ma – ribadisco la domanda – lei se la sentirebbe di vietare a dei genitori il cui figlio è ‘destinato a morire’ di tentare il tutto per tutto?”.

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