«L’incantesimo del lavoro come unico produttore di senso della vita non funziona più: va rifondato»
Siamo figli di un'idea del lavoro che ci rende dipendenti, ossessionati dal dimostrare sempre e comunque il nostro impegno, come forma di ubbidienza verso la nuova "famiglia" che ci ha accolto, convinti ancora che il lavoro è l'unica fonte di senso per la nostra vita. E sarà sempre peggio se non ripensiamo questo paradigma. Ce lo racconta uno degli autori di "Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo”
«Siamo di fronte a un burnout di massa che pone tutti di fronte a un bivio: continuare a lavorare come se niente fosse, lasciandosi masticare a oltranza, o ripensare il ruolo, lo spazio e il senso del lavoro nelle nostre vite, senza fretta, trasformandolo in uno slancio capace di creare un agire comune che dia davvero dignità alla vita. Intendiamoci: non c’è alcunché di sbagliato nel lavoro in sé; il problema risiede piuttosto nel fatto che è diventato un’ossessione e sembra essere l’unico modo per dignificare la vita, ma si tratta di una possibilità valida soltanto per un numero esiguo di individui».
Questo breve ma significativo pensiero è un passaggio del libro “Ma chi me lo fa fare? Come il lavoro ci ha illuso: la fine dell’incantesimo” di Maura Gancitano e Andrea Colamedici, edito da HarperCollins Italia. Nel dialogo che abbiamo avuto con uno dei due autori, Andrea, abbiamo potuto approfondire alcune impellenti tematiche riguardanti il mondo del lavoro, l’esigenza di ripensarlo e lo status in cui si trovano oggi sia i giovani che devono intraprendere un percorso di studi, sia chi vuole spezzare la catena di ritmi insostenibili e privi di senso.
Andrea, raccontate questo libro come figlio di un’esigenza di fermare la giostra, rallentare i ritmi. Ci racconta meglio?
«Durante la pandemia abbiamo lavorato tanto e ci siamo ci siamo messi al servizio facendo dialoghi online con tanti esperti e filosofi. Quando è finita immaginavamo che avremmo rallentato un po’. In realtà il mondo è come se avesse recuperato gli anni perduti. La società contemporanea non ha recepito gli insegnamenti di quanto avvenuto durante la pandemia sulla follia della giostra impazzita, e ha deciso di aggiungere ore alle giornate, di riempirle ancora di più e fare ancora più attività. A noi è successo di ritrovarci in giro per l’Italia 4-5 giorni a settimana e a un certo punto ci siamo accorti che ci eravamo fregati da soli. È come se fosse passata l’idea che bisognava recuperare del tempo perduto e che tutte le persone avevano il diritto di pretendere da se stessi e dagli altri una disposizione temporale totale e allora noi – che amiamo il nostro lavoro – ci siamo detti: “Questo tipo di lavoro fa male”».
A una lettura superficiale potrebbe sembrare un’azione contro il lavoro.
«In realtà noi siamo innamorati del nostro lavoro però il lavoro va rifondato, va ripensato radicalmente. Tutta la storia che abbiamo raccontato sul lavoro, l’incantesimo del lavoro come unico produttore di senso della vita non funziona più. Il lavoro non nobilita l’uomo in sé, così come il lavoro non rende liberi in sé. Un certo tipo di lavoro può rendere liberi, un certo tipo di lavoro può nobilitare, a patto però di avere un’esistenza ampia, dove ci sia spazio per l’azione e per l’ozio. Invece oggi il lavoro ha preso tutto. Ha preso lo spazio del lavoro, e l’ha occupato, però si è esteso anche sullo spazio dell’ozio».
Ci fa un esempio?
«Quando siamo sui social noi non riposiamo, noi lavoriamo. Lavoriamo per aziende che capitalizzano sulla nostra attenzione. Quando pensiamo di agire politicamente attraverso l’esercizio del voto stiamo facendo una sola delle tantissime cose che potremmo tornare a fare per essere degli attori politici. Il lavoro si è esteso anche lì. Ma il senso passa attraverso più dimensioni: una lavorativa, una legata all’ozio, all’essere fannulloni anche e all’azione politica. Sentendoci tutti perennemente in competizione non riusciamo a creare relazioni fertili con nessuno. Né nel nostro piccolo del condominio, né a livello nazionale».
Nel libro, anche passare il tempo sui social o sulle piattaforme di intrattenimento viene identificato come una sorta di lavoro. Ce lo spiega meglio?
«Da una parte noi lavoriamo alla costruzione del nostro brand, i nostri profili social sono delle vetrine. Noi costantemente aggiorniamo la nostra vetrina, quello è un lavoro perché in fondo da ciò che appare dalle nostre interazioni cambia il nostro stile di vita, cambiano le proposte lavorative. La moneta dell’attenzione che stabilisce quanto siamo interessanti e ricercati. Oggi ciò che ha valore è la persona impegnata. Durante una presentazione del libro è emersa una definizione secondo me davvero esemplificativa, noi siamo una classe “benestanchi”. Quando ci salutiamo: “Come va?”. “Bene, stanco”. Questa stanchezza deriva dal non smettere mai di lavorare. Lavoriamo anche da consumatori. I consumatori sono i nuovi lavoratori, perché l’iper-produzione di merce necessariamente ha bisogno di qualcuno che ne fruisca e di conseguenza noi lavoriamo fruendo merce. L’a.d. di Netflix lo disse molto chiaramente: “Il nostro vero competitor è il sonno”».
Voi avete trovato o state ancora cercando un equilibrio?
«Abbiamo trovato diversi spunti scientifici che dimostrano l’importanza di una riduzione dell’orario lavorativo. Chi pensa di essere innamorato del lavoro oggi molto spesso ne è ossessionato. E’ un’altra cosa. L’amore lo si può riscoprire se si ha il tempo per domandarsi se è amore. Il secondo punto sono i salari, il giusto trattamento. Creiamo le condizioni affinché ci sia un buon lavoro per tutti anziché costringere chi un lavoro non ce l’ha a farne uno terribile».
Qual è il lato più distopico delle realtà lavorative attuali?
«L’idea che il lavoro sia una famiglia. E’ pieno di luoghi in cui le persone vengono spronate a pensarsi parte di una grande famiglia al solo scopo di poterle sfruttare meglio. Le persone danno tutto fino a perdere i contatti con gli altri, rinunciano a coltivare i propri interessi e passioni per la “famiglia”. Questa noi la chiamiamo sindrome di Stoccolma aziendale. Vengono rapiti dai datori di lavoro verso i quali sviluppano una relazione di dipendenza».
Perché in Italia c’è una resistenza maggiore a riconoscere una perdita di diritti in ambito lavorativo anche rispetto ad anni precedenti o altre aree d’Europa come la Francia?
«Stiamo provando a interrogarci su questo da quando abbiamo visto le proteste in Francia, da varie discussioni e confronti è emerso spesso che gli italiani non sono un popolo, ossia gli italiani non sono ancora stati fatti (come identità ndr). Rispetto ai francesi non abbiamo un’esperienza di movimento popolare di rivolta. Siamo ancora un’accozzaglia di anime separate. Questa ipotesi mi convince però solo per alcuni versi.
Un’altra questione riguarda la pervasività del lassismo, siamo un popolo ozioso per certi versi, sì, ama lavorare ma ama anche oziare. Abbiamo paura di lottare per i nostri diritti. Il grande lascito di questi giorni di rivolte francesi è che generazioni diverse si possono unire insieme e stanno lottano insieme. Noi abbiamo una grossa difficoltà a far dialogare le generazioni tra di loro. C’è un grosso stigma. Non riusciamo a muoverci come popolo e non riusciamo di conseguenza a chiedere qualcosa che non sia per noi soli. Abbiamo una mentalità molto clientelare, della serie “se posso risolvermela da me, con il mio aggancio, lo faccio”. Non abbiamo un pensiero collettivo e ci pensiamo sempre come microcomunità, che non sono collegate con il tessuto statale».
La soluzione della settimana lavorativa ridotta può funzionare o è solo una bella favola?
«Ridurre la settimana per me è fondamentale, però non basta. Si tratta di migliorare la qualità del lavoro. Quel concetto per cui io divento di qualcun altro per un certo periodo di tempo è aberrante. C’è anche da ricostruire un senso della vita al di fuori dell’orario di lavoro. Il senso te lo devi costruire tu. Viviamo in un mondo in cui una parte di noi userà il lavoro per cercare di non far caso al fatto che il mondo è molto più complesso di quanto sembri e nel mondo il senso non c’è».
Se dovesse dare un consiglio ai ragazzi che si apprestano a uscire dalla scuola?
«Non credere alle storie per le quali il lavoro gli salverà la vita. Il lavoro può darle dignità, a patto che rispetti i loro lavori. A monte bisogna cercare i valori, capire quali sono. Passare al setaccio la vita ogni giorno per capire se ciò che ho fatto è in armonia con i miei valori o no».