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Sindrome di Stoccolma: la storia che c’è dietro

Immagine di copertina
Il rapinatore Jan Erik Olsson durante il suo arresto

Il 23 agosto 1973 è la data che si associa alla nascita della cosiddetta Sindrome di Stoccolma.

Erano le 10,15 di giovedì 23 agosto 1973 quando il 32enne Jan Erik Olsson, che aveva piccoli precedenti penali, entrava alla Kreditbanken di Norrmalmstorg, a Stoccolma, per una rapina. “Inizia la festa! Tutti giù, faccia a terra!”, urlò a coloro che si trovavano dentro la banca, prendendoli in ostaggio.

Le sue richieste erano tre milioni di corone svedesi e la liberazione di un amico che si trovava in un carcere di massima sicurezza.

Le cose non andarono secondo i piani e il rapinatore rimase con i quattro ostaggi e un complice all’interno della banca per sei giorni.

Una sera, durante il sequestro, arrivò una telefonata. Era il premier Olof Palme. A parlare con lui fu una degli ostaggi, Kristin Ehnmark, che disse al primo ministro che i rapinatori l’avevano trattata bene e che non voleva che venissero uccisi.

Nacque in quell’occasione il termine sindrome di Stoccolma, che indica il fenomeno secondo cui gli ostaggi solidarizzano con il loro sequestratore e provano nei suoi confronti sentimenti positivi, tanto da arrivare ad allearsi con loro.

Dopo quella strana vicenda gli ostaggi rimasero sempre in contatto con il loro rapinatore, tanto da andarlo a trovare in carcere. Olsson fu condannato a dieci anni di carcere per rapina a mano armata.

Il fenomeno dell’affezionarsi ai propri rapinatori è stato osservato da allora in numerosi casi. L’FBI sostiene che in circa il 30 per cento dei sequestri gli ostaggi mostrano una forma di sindrome di Stoccolma.

Il nome Sindrome di Stoccolma fu coniato dal criminologo e psicologo Nils Bejerot.

La reazione di affetto e vicinanza ai propri aguzzini non è tuttavia volontaria, ma si riscontra più a livello inconscio.

Gli studiosi hanno individuato tre stadi: il sentimento positivo dei prigionieri verso gli aguzzini, collegato al sentimento negativo verso i poliziotti. Si tratta di un sentimento che spesso contraccambiato dai carcerieri.

“Per risolvere favorevolmente un caso con ostaggi, la polizia deve, perciò, incoraggiare e tollerare le prime due fasi, così da provocare la terza salvando in tal modo la vita del sequestrato”, scrive l’Fbi.

La Sindrome di Stoccolma più che un vero e proprio disturbo rappresenta piuttosto un particolare stato psicologico che si verifica in situazioni di subalternità come un sequestro o altre durante episodi di violenza.

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