“Green book”, la recensione del film con Viggo Mortensen e Mahershala Ali
Cinque le candidature ottenute agli Oscar 2019
Un film on the road che racconta la nascita di un’amicizia tra due persone agli antipodi, e tutto è bene quel che finisce bene. Poteva ridursi a ciò, a un soggetto letto e riletto, a delle immagini viste e riviste sul grande e piccolo schermo, e invece no, Green Book non lo ha fatto.
La pellicola, diretta da Peter Farrelly e premiata come Miglior film agli Oscar 2019, è un esempio perfetto di commedia brillante. La storia raccontata – che prende spunto da fatti realmente accaduti, come si può notare nei titoli di coda – è genuina e originale. E il merito è di due fattori: la sceneggiatura e le interpretazioni.
Il ritmo nello scambio di battute, il tono che oscilla tra l’ironico e il sagace e ogni frase che non è mai scontata o banale caratterizzano lo script di Green Book, firmato dallo stesso regista e da Brian Hayes Currie e Nick Vallelonga. Uno stile che ricorda, per certi versi, i maestri del cinema italiano con la loro “commedia all’italiana”. Ecco, forse è questo il genere più giusto in cui inquadrare il film di Farrelly: un racconto ambientato negli anni Sessanta senza pietismo, con i suoi protagonisti pieni di difetti e pregi, che fanno ridere (e anche tanto) ma che lasciano poi, quando si esce dalla sala, un sapore amarognolo in bocca.
Perché oltre alla storia di un’amicizia, c’è di più. Razzismo e omosessualità si intrecciano costantemente nel film del regista di Scemo & più Scemo, tematiche delicate eppure mostrate superando ogni stereotipo a esse direttamente legato. E qui, al di là delle battute pronunciate, da lodare è chi si è messo davvero nei panni di Tony Lip e Don Shirley: Viggo Mortensen e Mahershala Ali.
Un Viggo così bravo non si vedeva, forse, dai tempi de La promessa dell’assassino di David Cronenberg. Per questa pellicola l’attore americano ha subito una trasformazione fisica notevole – grasso e goffo – ma necessaria per poter interpretare perfettamente il ruolo dell’italoamericano Tony Lip. A colpire, però, di Mortensen è il suo modo di muoversi, i suoi gesti, i suoi tic e l’accento italiano – con tanto di inflessione dialettale – che non ha nulla da invidiare al Padrino. Il suo personaggio è a suo agio con il mondo e così lo è Viggo.
Ali, che veste i panni del celebre pianista di jazz Don Shirley, non è da meno. Gelido ed elegante all’inizio, Ali a mano mano rivela la sua identità nel film, uomo solo che vuole sfidare il mondo (e i pregiudizi) con la sua musica per poter essere accettato così com’è. “Non sono abbastanza nero, non sono abbastanza bianco, che cosa sono allora?” chiede l’artista in un punto drammatico di Green Book, quando si sente totalmente rifiutato dalla società. Mahershala, con Don Shirley, mostra un lato inedito delle sue capacità.
Infine, sul piano tecnico, sono da sottolineare il vortice che talvolta il cineasta crea con i movimenti della macchina da presa – la frenesia di Shirley mentre suona il pianoforte ricorda Andrew Neiman (Miles Teller) in Whiplash – e le scenografie, che portano alla mente gli appartamenti di Liberace (Michael Douglas) in Dietro i candelabri.