È un falso mito che la sofferenza rende più forti
Lidia Yuknavitch racconta la storia della sua vita, segnata dall'immensa tragedia di aver perso la figlia nel giorno della nascita, in un percorso che dall'autodistruzione l'ha portata a diventare una scrittrice
Non è vero che la sofferenza si supera. A dirlo è la scrittrice Lidia Yuknavitch. La verità, secondo quanto scrive nel suo libro The Misfit’s Manifesto, è che non c’è niente di bello nel patimento. “La sofferenza, dal mio punto di vista, è un luogo reale dentro un corpo reale. Il modo in cui scegli di affrontarla determina probabilmente il resto della tua vita”.
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Ci si sente tra coloro che soffrono non a causa di un assurdo vortice di cameratismo tra vittime, e non perché la sofferenza contenga al suo interno un uguale e contrario stato di grazia, ma perché spesso chi soffre riesce a reinventarsi, “alchemizzando” il dolore, cambiando l’energia da una forma all’altra.
“Lasciate che vi racconti una storia di sofferenza diversa, che non può essere incoraggiata da una cultura che ti chiede di elaborare il tuo dolore e di diventare un buon cittadino, in un’economia sempre produttiva, fatta da persone produttive. Mia figlia è morta il giorno della sua nascita. Non sono l’unica persona che ha sperimentato il tormento che deriva da una tale perdita. Ma sono tra chi è disposto a rimanere in piedi, a raccontare la propria storia ad alta voce, ad ammettere di aver portato dentro quella profonda ferita per più di trent’anni”.
Su una cosa Yuknavitch è netta: non ha sublimato il suo dolore. Non ha ricevuto nessuna grande rivelazione, non ha acquisito una saggezza magica. Non è “andata avanti”. Dalla morte di sua figlia la sofferenza è diventata parte di lei. “Ed ecco quel che ho fatto: sono andata fuori di testa. Ma non è accaduto immediatamente”, racconta.
“All’ospedale mi sentivo come se mi stessi disintegrando, una molecola alla volta, ma non ho detto niente. Ho bevuto l’acqua che mi hanno dato, anche se non ho mangiato. Ho tenuto mia figlia senza vita stretta a me. L’ho baciata, cullata, ho cantato per lei. Pensavo di essere morta io stessa”.
Dopo quei momenti, racconta ancora la scrittrice, una volta tornata a casa si è chiusa nel silenzio, non ha permesso che nessun altro essere umano la toccasse. Ha lasciato che le crescessero i peli sulle gambe e sulle braccia.
“È stata mia sorella che mi ha riportato in vita, lentamente, mi ha dato dei pezzetti di cracker con il salame, e poi un giorno un uovo e, infine, un frullato. È stata lei a entrare completamente vestita nella doccia quando mi sentiva singhiozzare”.
“Mi ci è voluto quasi un anno. In quel primo anno ho fatto qualcosa di non etico. Ho mentito, più di quanto si possa immaginare. Sono tornata all’università e ho lavorato part time in un centro di assistenza all’infanzia, che con il senno di poi potrebbe essere stato un errore tragico. Ho mentito a tutti coloro che mi hanno chiesto di mia figlia. Ho detto a tutti che era viva, che era bella. Ho mentito su dove vivevamo. Buttavo la mia testa all’indietro dicendo: ‘Ah, essere madri!'”
“La mia storia non si adattava a quelle delle altre madri. Ho vissuto in fondo a un oceano molto scuro. Mi sentivo un fantasma, e così ho gravitato verso altri fantasmi, di notte, e ho iniziato a dormire sotto un cavalcavia proprio ai margini della città, vicino a una fermata dell’autobus”.
“Ho letto tutti i tipi di libri. All’interno dei libri vedevo storie in cui mi riconoscevo, perché la letteratura è piena di personaggi la cui vita è così tragica che si può respirare a malapena”.
Dieci anni dopo, la qualità di quella sofferenza ha assunto una forma diversa, diventando fame. Fame di idee, di sesso, di pericolo.
“Ho dormito con insegnanti, studenti, ubriachi e drogati, uomini e donne, con chiunque abbia avuto un bagliore di fuoco o di pericolo nell’angolo dell’occhio. Non c’era un farmaco che non avessi provato”.
Ed è dai libri che Lidia Yuknavitch ha intravisto uno dei percorsi possibili della sofferenza, dall’autodistruzione all’espressione. “Ho cominciato a inventare storie. Una volta che ho iniziato a scrivere, non ho più smesso”.
La morte della figlia, al termine di quell’oceano così nero, aveva assunto una forza generativa.
“E più ho scritto, più ho capito che i miei cosiddetti traumi – la morte di mia figlia, gli abusi subiti durante l’infanzia, la rabbia che ho portato dentro – erano luoghi di narrazione. In questo senso, scrivere era un mezzo per immergersi nelle acque della propria vita, nuotare verso il relitto e riportare qualcosa in superficie”.
Trent’anni dopo la qualità di quella tristezza è cambiata così radicalmente che si è trasformata in creatività.
“In ogni libro che abbia mai scritto c’è una ragazza. E ci sarà sempre. Il dolore per la morte di mia figlia e la mia sofferenza non sono qualcosa da superare”.
La morte, il dolore e il trauma sono vivi nei nostri corpi attuali. Li portiamo dentro per tutta la vita, anche se agiamo come se fosse possibile “uscire da loro”. Scrivere, inventare storie, disegnare, dipingere, produrre arte insomma, non libera da una perdita, ma aiuta a ricostruire il proprio io.
La nostra sofferenza, nel suo aspetto generativo, ha un significato secolare. “Abbiamo immesso forme ordinarie di speranza nel mondo in modo che gli altri possano continuare ad andare avanti”.