Da Elena Ferrante a Banksy, l’anonimato come ingrediente sicuro per il successo
Nell'era del selfie-centrismo, è boom di artisti che non rivelano la propria identità. Il risultato? Un successo stratosferico che poggia proprio sulla morbosa attrazione per quel poco di privacy che è rimasta in questa epoca 2.0
In una società selfie-centrica, chi l’avrebbe mai detto che l’anonimato funziona ancora?
Ebbene sì, anzi: va alla grande. Così alla grande che ormai l’ingrediente basilare per il successo è proprio non svelare il nome di chi si cela dietro.
E con il nome, anche la faccia, da camuffare per bene in nome di quell’anonimato che spopola in ogni settore dello showbiz.
Galeotto fu il libro, nel senso che la fama del misterioso autore nasce nel settore letterario e ha come archetipo niente po’ po’ di meno che Omero. Nessunosa chi era e neanche se era uno, nessuno o centomila, sempre per rimanere in ambito letterario.
Ma se nel casoillustre di Omero il mistero deriva dalla mancanza di testimonianze e di fonti della tradizione narrativa orale su cui si basa gran parte dell’epos della prima ora, oggi l’anonimia è una scelta consapevole, creata a tavolino assieme all’ufficio marketing tutto riunito e in fermentotale da mandare in game-over la macchinetta del caffè.
Tra i pionieri dell’anonimato moderno, una menzione d’onore spetta J. D. Salinger, autore di uno dei titoli più famosi del Novecento: Il giovane Holden.
Molti critici ma ancor di più molti colleghi di Salinger -animati da quell’invidia che scorre nelle vene degli scrittori con più impeto dell’inchiostro -credono che “il caso Holden”sia un esempio eclatante di opera sopravvalutata. Senza addentrarci inannose e noiose querelleletterarie, uno dei motivi per cui il pubblico si è tanto interessato al suddetto libro non è certo per scoprire dove finiscono in inverno le anatre del laghetto di Central Parkbensì per via della ritrosia del suo autore.
Salinger è uno dei letterati più citati al mondo eppure la sua faccia ben pochi riescono a metterla a fuoco. Perché? Ha sempre preferito stare in disparte, tenendo a debita distanza il suo pubblico e l’umanità in generale, da buon misantropo qual era.
E se tra i suoi colleghi il più agguerrito è Bret Easton Ellis (il quale in occasione della morte di Salinger ha messo nero su bianco postandolo suTwitter il suo risentimento nei confronti di quelmostro sacro secondo lui osannato senza ragione), l’autore di American Psychoe Meno di zeroavrebbe dovuto imparare qualcosa dalla “parabola di Salinger”: gli artisti che mettono alla mercé di chiunque l’intera propriavita, twittando anche morte e miracoli senza alcuna remora né privacy, hanno vita social breve poiché la gente si stufa.
L’unica cosa che non annoia mai è il mito, il mistero, il “boh”. Una riprova dell’appeal che il “chissàchi è?” esercita sul target letterario è l’altro nome gettonatissimo nei juke-books degli ultimi anni: Elena Ferrante.
Questa misteriosa autrice (dietro cui potrebbe celarsi anche un autore maschile, per quello che ne sappiamo) ha sbancato letteralmente e letterariamente il mercato, piazzandosi sul podio dei bestseller più venduti di sempre. Il perché? Nessuno l’ha mai vista in faccia.
Non solo il reparto libri pullula di nomi/non-nomi che creano un hype notevole: anche il reparto dischi ha come leitmotivdel successo il mistero che aleggia sull’artista.
Daicasi più eclatanti come quello deiDaft Punk (una delle band più famose delle sette note i cui due membri non si sono mai fatti vedere in faccia) agli esempi nostrani capeggiati dalla riservatissima Mina e da quei pionieri delle maschere da palco che sono stati iTre Allegri Ragazzi Morti, il riserbo funziona forse più di una hit orecchiabile.
L’ultima della lunga lista di anonimi de’ noantriè Myss Keta, l’irriverente reginetta del rap mascherata di burqa laico e con una parlantina sboccata targataMilano (che si è meritata gli onori della cronaca dell’ultima ora perché sarà la damigella d’onore di Chiara Ferragni e Fedez: è lei la galeotta che li ha fatti conoscere e fidanzare).
Tra le varie arti in cui l’anonimato gioca un ruolo fondamentale, c’è anche l’Arte con la A maiuscola, quella che usa pennello, lapis e pastelli per creareopere epoi non le verga con la firma. In realtà la firma c’è sempre ma spesso non è collegata a un’identità.
Il Batman dell’Arte numero uno è di certo il tanto misterioso quanto quotato Banksy, lo street-artist il cui nomignoloè il più ricercato daicollezionisti e dalle gallerie. E diciamocelo: l’animato che ammanta ogni suo capolavoro di charmegioca un ruolo chiave, altrimenti anche Banksy sarebbe stata la solita meteora stagionale, con una durata inferiore della vita media di una lucciola.
A conti fatti (soprattutto nelle tasche di chi professa il no-name/no-face)il selfie-a-qualunque-costosta al gregge come l’anonimato sta all’éliteculturale.
Eppure quella crème de la crèmeartistica che si nega al gregge in nome del mistero ha le casse alimentate proprio dall’amore viscerale che ilsuddetto branco di pecore nutre per chi le respinge.
Insito nell’animo umano ma soprattutto in quello deifan (incapaci di intendere e volere per loro stessa ammissione) c’è infatti una sorta di Sindrome di Stoccolma che fa sì che gli adoratori s’innamorino maggiormentese bistrattati, respinti, oltraggiati.
E non c’è oltraggio peggiore del negare agli altri la propriaidentità, togliendo loro l’ebbrezza di poterci fissare negli occhi anche solo per un istantein un Era in cui,tra Instagram Stories e post della qualunque che alimentano il voyerismo 2.0.,ormai non c’è più panno sporco che si lavi incasa propria.
Quindi anonimato sì, d’accordo,ma consci del fatto che il suo boom poggia proprio sulla saturazione del culto della personalità di cui la nostra società è figlia, vittima ma soprattutto carnefice.
Carnefice di noi pecore.