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Home » Esteri

“Io, medico israeliano, ho salvato la vita a Yahya Sinwar, leader di Hamas”

Immagine di copertina
Yuval Bitton con Yahya Sinwar, oggi leader di Hamas

Dal 1996 al 2011 Yuval Bitton fu il dottore personale di Yahya Sinwar in carcere. Scoprì un ascesso cerebrale e lo fece operare d’urgenza. “Disse che mi era debitore. Ma la sua ricompensa è stata rapire mio nipote nei raid del 7 ottobre”

La storia che lega l’israeliano Yuval Bitton al famigerato capo di Hamas Yahya Sinwar è tanto incredibile quanto terribile. Il primo, oggi capo intelligence della Polizia Penitenziaria, ha incontrato infatti il secondo in carcere nel 1996, quando è diventato suo medico privato durante gli anni della detenzione. 

Sinwar, artefice del massacro di Hamas del 7 ottobre nel sud di Israele, è stato condannato a quattro ergastoli per aver ucciso dodici palestinesi ritenuti da lui traditori. Ha trascorso 22 anni in carcere, imparando l’ebraico e studiando a fondo la società israeliana in tutte le sue debolezze. Sinwar è stato poi rilasciato durante le trattative per la liberazione del soldato dell’Idf Gilad Shalit, rapito e tenuto in ostaggio a Gaza fino al 2011, ma non prima di essere stato messo in salvo proprio dal medico Bitton, che gli ha diagnosticato appena in tempo un ascesso cerebrale. 

Oggi, per un macabro gioco del destino, Tamir Adar, il nipote del medico israeliano in questione, è uno dei 128 ostaggi israeliani tenuti in cattività nei tunnel del terrore di Hamas per ordine di Sinwar stesso. In questa intervista esclusiva a TPI il dottor Bitton racconta senza filtri e con grande lucidità gli aspetti più profondi e controversi di uno degli uomini più temuti e misteriosi dell’intero Medio Oriente. 

Dottor Bitton, chi è il Sinwar che lei ha conosciuto nelle carceri israeliani?
«Quando io ho cominciato a lavorare in prigione, il nome di Sinwar era già noto. Era molto vicino al fondatore di Hamas Ahmed Yassin, poiché capo dell’apparato militare». 

Si racconta che abbia cominciato a studiare Israele e i suoi punti deboli proprio durante gli anni della detenzione, progettando già all’epoca quello che è stato poi il 7 ottobre. Non avevate modo di evitare tutto ciò in tempo reale?
«Hamas non è Sinwar. Hamas non è un uomo solo. Sinwar è senza dubbio il più popolare dei suoi membri, ma non è l’unico. Hamas è composta da decine di migliaia di palestinesi che condividono la stessa ideologia fondamentalista. Così, anche in prigione. Non è isolando lui che risolvi il problema. La collettività è il problema. Perciò, la possibilità di evitare che i terroristi operino anche da dentro le carceri, è molto limitata». 

Sinwar non si trovava in isolamento?
«Israele è uno Stato democratico: agisce secondo delle regole ben precise. Vi sono diritti che i detenuti hanno e che noi rispettiamo. L’isolamento, dunque, viene inevitabilmente interrotto e perde così di efficacia. Nel caso di Sinwar, per esempio, abbiamo scoperto che l’avvocato che incontrava periodicamente fungeva da piattaforma di comunicazione con il mondo esteriore e con gli altri detenuti».

Ricorda forse il suo primo incontro con il capo di Hamas?
«Non ricordo nulla di specifico di quell’incontro. Ricordo invece che nel 2004, quando ero ormai il suo medico, gli ho salvato la vita. Ho riconosciuto in lui qualcosa di strano, l’ho fatto portare immediatamente in ospedale: lì gli hanno diagnosticato un ascesso cerebrale e operato d’urgenza. Un intervento delicato e complicato portato a termine con successo dall’equipe medica israeliana. Quando è tornato in prigione mi ha ringraziato di averlo salvato, mi ha detto di essermi debitore per il resto della vita. Ha mandato una lettera a tutta la leadership di Hamas dicendo loro che mi sono tutti debitori». 

Che valore ha questa frase? Cosa significa che un leader di Hamas ti deve la vita?
«Nessun valore, nessun significato. Sai come ha riscattato il suo debito? Prendendo in ostaggio mio nipote Tamir. È stato rapito il 7 ottobre è portato a Gaza: da allora non abbiamo sue notizie». 

Il fatto che Israele gli abbia salvato la vita non ha cambiato in lui la percezione del conflitto?
«Sinwar ha ucciso 12 palestinesi sospettati di aver collaborato con Israele. Nota bene: sospettati. Di fatto non avevano collaborato con noi, ma a lui non interessava. Il solo sospetto era sufficiente a far tagliar loro la gola. Alcuni di loro, invece, sono stati seppelliti vivi: erano perfettamente consci e respiravano mentre venivano ricoperti di sabbia. Come puoi intuire, non stiamo parlando di un uomo da cui possiamo aspettarci ripensamenti circa il conflitto». 

Quale aspetto psicologico crede che più definisca Sinwar in quanto uomo e in quanto leader?
«Sinwar ha sempre avuto un grave problema di sproporzionalità: è disposto a pagare qualunque prezzo affinché i suoi obiettivi vengano raggiunti. In nome della sua ideologia, è disposto a sacrificare moltissimo per ottenere pochissimo. Quando Gilad Shalit è stato rapito, in risposta l’Idf ha eliminato decine di terroristi di Hamas. “Cosa stai cercando di fare? Perché sei disposto a sacrificare i tuoi uomini per un solo soldato israeliano?”, gli domandai. La sua risposta mi lasciò interdetto. “Per uno dei vostri, sono disposto a sacrificare centomila dei miei”, disse». 

Così è stato anche il 7 ottobre?
«Esattamente. Sinwar sapeva che un massacro di quel tipo avrebbe portato alla cancellazione di Hamas, ma ancora una volta ha agito secondo una logica tutta sua. Se oggi gli domandassi se valeva la pena compiere quel massacro, sono assolutamente certo che Sinwar risponderebbe di sì». 

Il personaggio da lei descritto rasenta la follia.
«Assolutamente no. Ho letto sulla stampa nazionale e internazionale che Sinwar è un pazzo che soffre di disturbi mentali. No, no, no e ancora no. A un pazzo facciamo gli sconti. A Sinwar non va fatto alcuno sconto. Sinwar è assolutamente conscio delle sue azioni e perfettamente consapevole delle ripercussioni alle sue azioni». 

Hamas ha diversi capi, interni ed esterni a Gaza. Cosa differenza Sinwar dagli altri?
«Prima di Sinwar, tutti i leader di Hamas erano politici. Sinwar è il primo ad avere un passato non politico, ma militare. Lui non sa cosa siano i rapporti diplomatici e non riesce ad immaginare una soluzione al conflitto israelo-palestinese che non comprenda un attacco armato». 

Dunque, come crede che terminerà questa guerra?
«Io osservo le mosse di Hamas da vicino e, dal 7 ottobre ad oggi, non ho sbagliato nessun pronostico. Sinwar ha un solo obiettivo: sopravvivere e rimanere al potere. Del suo popolo, del destino dei palestinesi, non gli interessa assolutamente nulla». 

Ciò significa che non c’è speranza per gli ostaggi rimanenti? Nemmeno per suo nipote?
«Nella realtà attuale, no. Nonostante la risposta israeliana al 7 ottobre sia stata forte, Sinwar è ancora al potere, non si sente minimamente in pericolo, non ha la percezione di poter perdere tutto. Anzi, continua ad avere il coltello dalla parte del manico e a gestire gli scontri da perfetto vincitore. Finché continuerà lui a definire le condizioni per i negoziati e non Israele, non abbiamo alcuna speranza di arrivare ad un accordo ragionevole». 

C’è chi sostiene che Sinwar sia ormai scappato in Egitto. Che non è più a Gaza. Lei, che lo conosce meglio di chiunque altro, crede a queste voci?
«Figuriamoci, certo che no. Sinwar non è Arafat. Fuggire non è nel suo Dna. Lui vuole essere ricordato come il più grande leader del mondo arabo. Dopo il 7 ottobre, già si sente un eroe. No, non lascerà Gaza. Preferirà morire da martire piuttosto. Anzi, forse spera di morire da martire, così da diventare leggenda». 

E lei crede che morirà da martire?
«Se Israele non cambia subito strategia politica e militare, credo proprio di no».

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