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Home » Esteri

Ecco cosa nasconde lo scandalo Signalgate e perché dimostra il flop della politica di Trump in Yemen

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Il presidente Usa Donald Trump segue il raid del 15 marzo 2025 contro gli Houthi in Yemen. Credit: White House / Instagram

L'attuale dibattito incentrato sulla fuga di notizie rischia di perdere di vista la mancanza di efficacia dei bombardamenti contro il gruppo armato sciita, che ricalca un copione già visto negli ultimi dieci anni rischiando solo di aumentare l’instabilità in un Paese completamente in ginocchio

Lo scandalo “Signalgate”, in cui quasi una ventina di funzionari ai massimi vertici dell’amministrazione degli Stati Uniti discutevano su un’app privata dei piani di attacco contro gli Houthi alla presenza di un giornalista aggiunto al gruppo per sbaglio, ha riportato l’attenzione su una delle tante guerre dimenticate in corso nel mondo: il conflitto scoppiato in Yemen nel settembre 2014 e che ha causato una delle peggiori crisi umanitarie della storia recente.

Ma al di là della polemica in corso negli Usa per la fuga di notizie dopo la pubblicazione integrale da parte della rivista The Atlantic dei messaggi della chat contenenti la sequenza di lancio e a dieci anni esatti dall’intervento della coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita per riportare al potere a Sana’a il governo riconosciuto dalle Nazioni Unite, l’attuale dibattito ha perso di vista un aspetto importante, ossia la mancanza di efficacia dell’intensificazione dei bombardamenti decisa dal presidente statunitense Donald Trump contro il gruppo armato sciita filo-iraniano, designato come organizzazione terroristica tra i primi atti della sua nuova amministrazione.

Un quadro frammentato
Malgrado la tregua di sei mesi siglata nell’aprile del 2022 e scaduta il 2 ottobre dello stesso anno non sia mai stata ufficialmente rinnovata, più che terminare, negli ultimi tre anni le ostilità erano andate via via esaurendosi a favore di un quadro molto frammentato. Gli Houthi infatti, con il loro braccio politico Ansarullah, governano solo un terzo del territorio dello Yemen, dove però vive più di due terzi della popolazione, mantenendo il controllo della maggior parte delle zone occidentali e nord-occidentali del Paese arabo, compresa la capitale Sana’a e il principale porto yemenita sul Mar Rosso, Hodeidah.

Il resto dello Yemen invece, escluse le sacche in cui imperversano bande più o meno legate ad al-Qaeda e al sedicente Stato Islamico (Isis), è nominalmente in mano al governo internazionalmente riconosciuto del Consiglio presidenziale, guidato dallo storico consigliere dell’ex presidente Abdrabbuh Mansur Hadi (in carica dal 2012 al 2022), Rashad al-Alimi, appoggiato dal Congresso generale del Popolo, il partito nazionalista al potere dal 1993, e da una coalizione piuttosto eterogenea. Qui infatti siedono in primis i separatisti del Consiglio di transizione meridionale, governato dal vicepresidente Aidarus al-Zoubaidi del Movimento per lo Yemen del Sud e dal consigliere Abed al-Rahman Abu Zara’a della cosiddetta Brigata dei Giganti sostenuta dagli Emirati Arabi Uniti, che insieme controllano la capitale economica Aden e una larga fascia costiera del sud del Paese arabo.

Quindi ci sono i paramilitari della Resistenza Nazionale di Tareq Saleh, nipote del defunto dittatore Ali Abdullah Saleh, che prima aveva represso nel sangue le rivolte della Primavera araba nel 2011, poi l’anno dopo si era fatto da parte per il suo vice Hadi, quindi si era accordato con gli Houthi e poi era morto nel 2017 in uno scontro con il gruppo sciita a Sana’a. Oggi i suoi fedelissimi sono tornati all’ovile e si sono asserragliati nella strategica roccaforte di Mokha, all’ingresso nord dello Stretto di Bab el-Mandeb, e nei suoi dintorni. A questi si aggiungono i due vicepresidenti Sultan Ali al-Arada, che è anche governatore della provincia centro-occidentale di Marib, e Abdullah al-Alimi Bawazeer, entrambi membri del partito ultraconservatore Islah, branca dei Fratelli Musulmani in Yemen; e una serie di leader tribali e di comandanti delle Forze d’élite Hadhrami, armate negli anni dagli Emirati Arabi e finanziate dall’Arabia Saudita, che controllano una vasta area intorno a Mukalla, capoluogo del governatorato orientale di Hadramaut, nel sud del Paese.

Sebbene la conflittualità non si sia mai completamente fermata, anche grazie all’accordo diplomatico raggiunto il 10 marzo 2023 tra Arabia Saudita e Iran con la mediazione della Cina per la normalizzazione delle relazioni bilaterali tra i principali sostenitori delle parti in guerra, i vari fronti avevano subito una fase di tregua. Nemmeno la ripresa del conflitto nella Striscia di Gaza tra Israele e Hamas dopo gli attentati del 7 ottobre 2023 aveva, a dire il vero, cambiato più di tanto lo stallo in Yemen.

Una nuova strategia, simile alla vecchia
Da allora, ufficialmente in solidarietà con i palestinesi e in coordinamento con l’Iran e i suoi sodali di Hezbollah e di altre formazioni simili in tutto il Medio Oriente, le forze Houthi, riunite nella cosiddetta “Alleanza dei partiti e delle forze politiche anti-aggressione”, avevano ripreso a minacciare la libera navigazione nel Mar Rosso e nel Golfo di Aden, colpendo e sequestrando mercantili collegati a Israele e ai suoi alleati in Europa e Nord America per fare pressione sull’Occidente affinché costringesse lo Stato ebraico a fermare le operazioni militari nel territorio costiero.

Una minaccia poi elevata, con il protrarsi del conflitto e dei massacri di civili a Gaza, ad attacchi diretti con missili balistici e droni lanciati sia contro le navi militari statunitensi ed europee intervenute a difesa dei mercantili sia verso Israele, provocando prima la reazione di Usa e Regno Unito che dal gennaio 2024, nell’ambito dell’operazione Prosperity Guardian appoggiata anche da Australia, Canada, Bahrein, Danimarca e Nuova Zelanda, hanno condotto oltre 300 bombardamenti sulle posizioni del gruppo armato sciita, e poi di Tel Aviv, che dal luglio scorso ha risposto con una ventina di raid aerei sullo Yemen. Operazioni che non hanno cambiato la situazione sul campo.

Eppure, a partire dal 15 marzo scorso, l’amministrazione degli Stati Uniti del presidente Donald Trump ha intensificato i bombardamenti contro gli Houthi. Come spiegato nelle chat trapelate su The Atlantic dal segretario alla Difesa Pete Hegseth, gli scopi di Washington non riguardano tanto lo Yemen quanto piuttosto il più ampio quadro internazionale: in primis “ripristinare la libertà di navigazione”, un obiettivo definito “un interesse nazionale fondamentale” degli Usa; e poi “ristabilire la deterrenza”. Il tutto, secondo l’unica considerazione di carattere regionale emersa dalla conversazione riservata tra i vertici degli Stati Uniti, da realizzare “prima che Israele intraprenda un’azione” simile, “impedendoci (agli Usa, ndr) di mantenere l’iniziativa” o “che il cessate il fuoco a Gaza vada in pezzi”, previsione puntualmente avveratisi il 18 marzo, tre giorni dopo i nuovi bombardamenti americani contro gli Houthi.

“Stiamo facendo un favore al mondo intero liberandoci di questi tizi e della loro capacità di colpire le spedizioni globali”, aveva spiegato il giorno dopo i raid in Yemen il segretario di Stato Marco Rubio, intervistato dalla Cbs. “Questa è la missione e continuerà finché non sarà portata a termine”. ”Abbiamo colpito il loro quartier generale”, aveva aggiunto il 23 marzo, sempre alla Cbs, il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa bianca Mike Waltz. “Abbiamo colpito nodi di comunicazione, fabbriche di armi e persino alcune delle loro strutture di produzione di droni marittimi”. Nessuna di queste affermazioni è stata successivamente confermata e il fatto che da allora gli Houthi abbiano continuato a lanciare missili e droni sia contro le navi della flotta anglo-americana che contro Israele sembra confermarlo. Tanto che questa notte, alla vigilia del decimo anniversario dell’intervento della coalizione militare a guida saudita, le forze Usa sono state costrette a bombardare per 17 volte le aree dello Yemen controllate dal gruppo armato sciita, dopo l’ennesimo attacco alla portaerei USS Harry Truman.

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Ma se non è affatto chiaro quanto stia pagando questa tattica, piano piano comincia a emergere la dimensione dei costi che, secondo quanto emerso dalla chat riservata trapelata sulla stampa statunitense, la Casa bianca vorrebbe addebitare in qualche modo a Egitto ed Europa. Numeri impressionanti, come recentemente spiegato al portale statunitense Task & Purpose dal comandante in congedo della Marina statunitense e attuale consulente dell’Hudson Institute, Bryan Clark. Dal 19 ottobre 2023 al 19 gennaio 2025, secondo l’ex militare, le forze Usa impiegate nel Mar Rosso hanno partecipato al maggior numero di combattimenti in mare dalla Seconda guerra mondiale, utilizzando più missili per la difesa aerea che in tutti gli anni successivi all’operazione Desert Storm lanciata all’inizio degli anni Novanta in Iraq e Kuwait. “È piuttosto sorprendente come la Marina abbia resistito senza perdite, ma il costo è stato enorme”, ha sottolineato Clark, secondo cui in questo periodo la Marina Usa ha speso “più di 1 miliardo di dollari in intercettori per abbattere la minaccia balistica” degli Houthi. Cifre dovute all’alto costo dei raid aerei che, a lungo andare e a fronte dei modesti risultati registrati sul campo, nello scorso decennio hanno finito per spaventare persino regni ricchissimi come quelli del Golfo.

La strategia adottata da Trump contro gli Houthi in Yemen ricalca infatti quella seguita per anni, spesso senza tenere in alcun conto la possibilità di provocare vittime anche tra i civili, proprio dalla coalizione araba a guida saudita, armata da Stati Uniti e Paesi europei, Italia compresa, che dal 2015, secondo lo studio indipendente Yemen Data Project, ha compiuto più di 25mila raid contro il gruppo, senza riuscire a prevalere. Oltre un decennio di spargimenti di sangue, campagne di bombardamenti incessanti, assedio della popolazione civile e progressivo impoverimento del Paese, con conseguenze umanitarie catastrofiche, ha prodotto solo una fragile situazione di stallo, come abbiamo visto dalla situazione sopra descritta. A costi altissimi per tutte le parti e senza piegare la voglia di combattere del gruppo armato sciita.

“L’aggressione iniziata il 26 marzo 2015, sotto lo slogan ‘Tempesta decisiva’, nell’illusione che lo Yemen fosse un boccone appetitoso e che Sana’a sarebbe caduta nel giro di poche settimane, (…) si è trasformata in un ‘incubo’ per l’aggressore che non è riuscito a spezzare la nostra volontà”, si legge in una dichiarazione diramata proprio oggi dagli Houthi. “L’aggressione ci ha resi più forti e più duri”. Un’affermazione non così lontana dalla realtà a giudicare dai dati pubblicati dalla Casa bianca, secondo cui “dal 2023” il gruppo armato “ha attaccato le navi militari della Marina degli Stati Uniti 174 volte e (…) le navi mercantili 145 volte”. Gli unici a rimetterci insomma sono gli yemeniti.

Numeri spaventosi
Gli ultimi 15 mesi di questa nuova campagna di violenze, secondo lo Yemen Data Project, sono infatti costati la vita a circa 120 persone. Soltanto nell’ultima settimana, i bombardamenti statunitensi hanno provocato 25 vittime civili, compresi 4 minori, colpendo strutture sanitarie, scuole e aree residenziali. Proprio come avveniva durante le ore più buie dell’intervento a guida saudita. Considerati i numeri della crisi umanitaria in corso ormai da un decennio, queste cifre appaiono come una goccia nel mare di lacrime causate dal conflitto ma restano comunque le più significative da tre anni a questa parte in un Paese completamente in ginocchio.

Nessuno conosce il bilancio reale delle vittime della guerra ma almeno 377mila persone potrebbero essere morte dal 2014, di cui 250mila decedute per fame ed epidemie. Secondo l’ultimo rapporto pubblicato dall’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Unocha), nel 2025 almeno 19,5 milioni di yemeniti avranno bisogno di assistenza umanitaria, compresi 15 milioni di donne e bambini. Oltre 17 milioni di persone, pari a metà della popolazione, sono a rischio insicurezza alimentare e non hanno accesso quotidiano all’acqua potabile, mentre il 55 per cento dei minori soffre ormai di malnutrizione cronica. Almeno 4,8 su circa 39,4 milioni di abitanti risultano sfollati e di questi 1,9 milioni vivono in oltre duemila campi profughi, più di un terzo dei quali a rischio incendi o alluvioni. Oltre 3,2 milioni di bambini non hanno più accesso alle scuole, il 40 per cento delle strutture sanitarie non è più in grado di fornire assistenza e l’epidemia di colera ha registrato più di 253mila contagi e almeno 672 vittime.

Gli Houthi e i loro metodi brutali, con arresti e prese d’ostaggi persino tra il personale delle Nazioni Unite e delle organizzazioni umanitarie impegnate ad aiutare la popolazione civile, sono certamente parte del problema ma la storia insegna che i raid aerei di Stati Uniti, Regno Unito e Israele non li fermeranno né aiuteranno in alcun modo a raggiungere una soluzione, che può essere solo politica, al conflitto in corso da oltre un decennio in Yemen.

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