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Vivere con Pol Pot

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Il racconto di un eccidio

Mr Peter ha cinquant’anni, è cambogiano e vive a Phnom Penh. Come molti altri suoi connazionali, per guadagnarsi da vivere lavora come taxista di tuk tuk, un particolare mezzo di trasporto tipico del sud est asiatico.

All’età di undici anni, Mr Peter non si trovava dietro a un banco di scuola ad ascoltare le lezioni dei suoi insegnanti, bensì in una remota regione rurale della Cambogia a coltivare riso per dodici ore al giorno e in condizioni di assoluta precarietà. Il suo caso, tuttavia, è molto simile a quello della maggior parte della popolazione khmer che ha dovuto sottostare alla brutale ideologia di Pol Pot e dell’Angka, il partito che tutto vede e ascolta.

La famiglia di Peter era composta dai due genitori e i quattro fratelli. Oggi, l’unico rimasto in vita è proprio lui. Il padre era un medico di professione laureatosi in Francia e per questo considerato un uomo pericoloso dal regime dei khmer rossi. Venne ucciso subito dopo la presa della capitale da parte di Pol Pot, il 17 aprile 1975.

Un fratello, che puntava anch’egli a diventare medico, venne ammazzato all’età di ventuno anni con un colpo di bastone esattamente dietro la nuca, pratica tipica delle camicie nere dell’Angka. La sorella di Peter, invece, subì una sorte ancora peggiore. Legata mani e piedi, le misero una mina anti uomo in mezzo alle gambe e venne lasciata al suo destino insieme ad altre sue coetanee nel bel mezzo della giungla cambogiana.

All’eccidio della popolazione cambogiana da parte dei khmer rossi, solo Peter e sua madre sono riusciti a ritrovarsi, degli altri due fratelli non si è mai più avuto notizia. Dagli occhi scuri del taxista, che parla un inglese perfetto, si possono leggere la sofferenza patita per i famigliari, l’infanzia negata e le interminabili sessioni di lavoro di cui per quattro anni è stato una vittima innocente. Non si fa fatica a credergli quando afferma di svegliarsi ancora oggi, di notte, per colpa delle immagini ancora vive del suo passato.

Il regime di Pol Pot fu questo e molto altro. Dopo aver sconfitto il governo di Lon Nol, imposto con la forza dagli americani nel 1970, i khmer rossi perseguirono una politica di annientamento della popolazione in nome di un ordine nuovo basato sulla collettivizzazione dell’agricoltura, prevalentemente riso, e su un uso ridottissimo dell’industria.

Per questi motivi, gli abitanti delle città vennero fatti spostare dai centri urbani alle regioni di campagna e messi a lavorare in immense risaie che successivamente si rivelarono completamente inutili; gli elementi ostili all’ideologia comunista (principalmente gli intellettuali) furono subito ammazzati e venne istituito un vero proprio lager nel pieno centro di Phnom Penh, il cosiddetto ufficio di sicurezza S-21, in cui si stima abbiano perso la vita almeno 20.000 persone.

Nel 1979, anno della sconfitta dei khmer rossi da parte dei loro nemici vietnamiti, il bilancio finale dei morti lasciò letteralmente a bocca aperta il mondo intero: due milioni di cambogiani, il che vuol dire un quarto dell’intera popolazione dell’epoca, persero la vita a causa della politica di Pol Pot. Quando le frontiere del Paese vennero aperte all’esterno, campi pieni di teschi e resti umani diedero il benvenuto ai giornalisti venuti a verificare di persona, dopo quattro anni di silenzio, se le voci su uno dei regimi comunisti più brutali della storia fossero effettivamente vere.

Tra questi era presente anche il giornalista italiano Tiziano Terzani che, in un’intervista rilasciata alla Rai nel 1985, offrì una chiara testimonianza del massacro compiuto dai khmer rossi: «Sono ritornato in Cambogia nel 1980. […] Fu un’esperienza drammaticissima perché fino ad allora avevo vissuto, attraverso la storia dei rifugiati lungo la frontiera, la tragedia cambogiana, ma solo nei racconti.

E devo dire che anche ad immaginarsi l’orrore, la fantasia non riesce mai a cogliere quel tanto di orrore che c’era invece nella realtà cambogiana. Uno si può immaginare i massacri, le fosse comuni, si può immaginare migliaia e migliaia di persone morte; ma se le metti in fila, quelle persone morte, se le vedi, queste ossa, sono tante di più di quelle che uno si può immaginare».

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