La realtà è che la vittoria di Trump ha decretato la sconfitta dei tradizionali partiti americani
Il commento del giornalista Fulvio Scaglione sulle elezioni presidenziali negli Stati Uniti
Citarsi è sempre cosa poco fine, diciamolo pure. Ma il 1 agosto di quest’anno, in forma di editoriale per un giornale del nord, ho pubblicato un articolo intitolato “Hillary, il candidato debole”. Titolo eretico, alla luce di quanto la quasi totalità dei media ha sostenuto fino a… ieri. Eppure, il voto che ha incoronato Donald Trump conferma proprio quell’intuizione: la Clinton era un candidato debole, anzi debolissimo.
Certo, il suo curriculum poteva far pensare il contrario. First Lady per otto anni, per altri otto senatrice per lo stato di New York, poi per quattro anni segretario di Stato con Barack Obama presidente. Se a tutto questo aggiungiamo la giovanile ma prestigiosa carriera di avvocato, dobbiamo riconoscere che la Clinton aveva tutto per aspirare alla massima carica politica degli Stati Uniti. Molto, molto più di quanto possa tuttora vantare Trump, che invece presidente lo è diventato davvero.
Però già da questo si poteva intuire la sostanziale, anzi strutturale debolezza elettorale della Clinton. Con un pedigree come quello, l’unico avversario interno al Partito democratico, il senatore del Vermont Bernie Sanders, onesto ma modesto politico di lungo corso, l’unico parlamentare americano a definirsi “socialista”, avrebbe dovuto essere spazzato via in poche battute. E invece, come abbiamo saputo da Wikileaks, per conquistare con un minimo di agio la nomination democratica la Clinton ha dovuto far ricorso alle condizioni di “miglior favore” che la direzione del partito le aveva apparecchiato ai danni dell’indifeso Sanders.
Ma a quanto pare non bastava. Con lei si è schierato Barack Obama, che negli ultimi giorni della campagna elettorale ha arruolato anche Michelle e si è sobbarcato un piccolo tour di propaganda. Appoggio che non deve essere sottovalutato: in tutti i sondaggi del 2016, da Gallup a Fox News, e a dispetto delle critiche politiche, Obama ha conservato un rating positivo sempre superiore al 50 per cento degli interpellati.
Con la Clinton, inoltre, si sono schierati via via la grande finanza, il complesso industrial-militare, i media più influenti, Hollywood e l’industria dello spettacolo, compresa la cantante Madonna che andava offrendo sesso orale a chi avesse votato per la candidata.
Non a caso, negli ultimi giorni, conscio forse del possibile disastro, l’establishment democratico e, appunto, gli ambienti che lo appoggiavano, hanno cercato di terrorizzare gli elettori con le minacce corrispondenti a tutti quegli ambiti. Il crollo delle Borse, il terrorismo di al-Qaeda, i maneggi di Vladimir Putin, persino l’ipotesi di un mezzo complotto dell’Fbi (che indagava sullo strano giro di e-mail degli assistenti della Clinton): nessuna disgrazia era impossibile se Trump cresceva nei sondaggi.
A dispetto di tutto questo, Hillary Clinton ha perso l’elezione. E i magri 200mila voti popolari in più che ha raccolto su scala nazionale non solo non compensano la sconfitta ma semmai l’aggravano. Il sistema di potere dei democratici ha fatto tutto il possibile, e anche di più, per portarla alla Casa Bianca.
Il punto debole era lei, incapace di mobilitare i giovani, amata solo da una parte delle donne (a dispetto della tanto sbandierata novità di primo candidato donna alla presidenza), detestata da tutti coloro che la considerano un prodotto della ‘politica politicata’. Non si spiegherebbe altrimenti la sconfitta incassata anche in stati di forte tradizione democratica.
Il bello, o il brutto di tutto questo, secondo i punti di vista, è che la democratica Clinton ha perso contro un candidato repubblicano che repubblicano davvero non è, e che era ed è inviso a quasi tutti i pezzi grossi del partito, dalla famiglia Bush a John McCain. Un Trump che, in ogni caso, ha trascinato i repubblicani alla conquista della maggioranza in entrambi i rami del Congresso.
La morale di questa elezione, dunque, è soprattutto che i due grandi partiti dello spettro politico americano escono con le ossa rotte dalla forca caudina del voto popolare. Uno, quello democratico, ha prodotto un candidato tutto d’apparato, debole appunto. L’altro, il repubblicano, si è fatto travolgere dall’autocandidatura di Trump, che ha spazzato via come fuscelli i presunti uomini forti del partito.
Una crisi che è culturale e di rappresentanza insieme e da cui non sarà facile uscire. Per il prossimo voto c’è tempo, ma quelli che già pensano a Michelle Obama per il 2020 non fanno ben sperare.