La misteriosa storia dei videogiochi sepolti nel deserto del New Mexico
Per oltre 30 anni questa vicenda fu considerata una leggenda metropolitana, finché questi videogiochi non vennero realmente trovati
Le leggende metropolitane sono il simbolo per eccellenza di come una storiella frutto della fantasia, che spesso manifesta le più ancestrali paure del genere umano, passi di bocca in bocca al punto di diventare una verità per molti. Una verità che non ha conferme, prove, punti di riferimento chiari, ma considerata da molti reale.
Queste storie si basano spesso su un fondo di verità, partendo da una storia simile fraintesa o corrotta dal tempo e dal suo passaggio di bocca in bocca. Ma ci sono volte in cui una leggenda metropolitana non si limita a risultare fondata, ma si scopre essere vera in tutto e per tutto.
Questa storia si svolge in un ambiente che si presta molto alle leggende metropolitane, il deserto del New Mexico, ma non ci sono né assassini né autostoppisti fantasma. Ci sono migliaia e migliaia di cartucce di videogiochi. Esatto, cartucce, perché non siamo ai tempi in cui si gioca con la PlayStation, la Wii o l’XBox. Siamo negli anni Ottanta, all’inizio degli anni Ottanta e i patiti di videogiochi, quando non vanno nei bar a giocare con le macchine a gettone, usano l’Atari e il Commodore, che funzionano a cartucce.
Questa storia nasce in primo luogo da alcuni articoli pubblicati dall’Alamogordo Daily News, un piccolo giornale locale di Alamogordo, New Mexico, nel 1983, in cui si diceva che tra i dieci e i venti autocarri avrebbero raggiunto il deserto provenienti da un magazzino di proprietà della Atari, celebre casa produttrice di videogiochi statunitense, situato nella vicina El Paso. Questi autocarri avrebbero scaricato migliaia di cartucce di videogiochi e le avrebbero sepolte nel deserto.
(Uno degli articoli del 1983 comparsi sull’Alamogordo Daily News. L’articolo prosegue dopo l’immagine)
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Ma perché una casa produttrice di console e videogiochi tra i più conosciuti al mondo avrebbe dovuto fare una cosa del genere?
La Atari, infatti, a partire dagli anni Settanta ebbe una crescita molto forte, cavalcando più di altri il nascente mercato dei videogiochi grazie a numerosi titoli come gli storici Pong e Asteroids, e per questa ragione nel 1982, quando il suo fatturato annuale raggiunse la cifra record di due miliardi di dollari, decise di pensare le cose in grande.
In quell’anno la principale console prodotta dall’azienda americana era l’Atari-2600, e si decise di lanciare per questo prodotto due nuovi videogiochi, in cartuccia ovviamente, come era consuetudine per le console dell’epoca.
Il primo di questi due fu Pac-Man, celebre titolo per i videogiochi arcade, termine tecnico con cui si definiscono le macchine delle sale giochi. Si trattava di un gioco molto noto e popolare, e l’Atari decise di lanciarlo sul mercato in grande stile con ben 12 milioni di copie, nonostante il numero di console vendute l’anno precedente fosse di 10 milioni. L’idea dell’azienda era probabilmente che gli amanti dei videogiochi avrebbero preferito avere questo titolo a disposizione in casa in qualsiasi momento rispetto a doverci giocare in sala giochi.
L’altra operazione fu invece quella di lanciare sul mercato un videogiochi dedicato a E.T., il celebre extraterrestre protagonista del film di Steven Spielberg. Un’operazione – quella di lanciare un videogioco dedicato a un film – per l’epoca molto audace e, come tale, molto rischiosa. Ma soprattutto molto costosa, dal momento che i diritti furono pagati tra i 20 e i 25 milioni di dollari.
Queste operazioni però andarono entrambe molto male. Per quanto riguarda Pac-Man, il titolo risultò essere il più venduto del 1982 con sette milioni di copie vendute. Ma questo record fu beffardo, perché lasciò comunque cinque milioni di cartucce nei magazzini dell’Atari. A questo inoltre si aggiunsero le numerose critiche da parte degli utenti dovute alla scarsa giocabilità, che portarono molte persone a riconsegnare il gioco nei negozi con conseguente rimborso e ulteriore danno per l’Atari.
Anche quello di E.T. fu un tragico insuccesso. Il videogioco venne aspramente criticato, al punto da essere ritenuto uno dei peggiori videogiochi di sempre, e gli amanti dell’extraterrestre preferirono continuare a vederlo solo nella celebre pellicola e non protagonista di un videogioco. Con un altro risultato drammatico: di 5 milioni di cartucce messe in commercio, solo un milione e mezzo vendute. Meno di un terzo.
A contribuire a questi insuccessi ci fu poi un altro fattore: l’aumento della concorrenza nel mercato dei videogiochi, data soprattutto dal calare dei prezzi dei personal computer che permettevano una migliore qualità e una maggiore qualità per questo tipo di giochi rispetto alle console.
Di fronte a questi insuccessi, la Atari avrebbe deciso di liberarsi delle milioni di cartucce di videogiochi invenduti, portandoli in un impianto nei pressi di Alamogordo, nel deserto del New Mexico, e seppellendoli lì. L’azienda statunitense, di fronte alla crescente curiosità intorno all’evento, dichiarò in via ufficiale che aveva gettato nella discarica solamente alcuni titoli difettosi, quindi non milioni di cartucce invendute.
La storia, dunque, venne presto tacciata di essere una leggenda metropolitana. E in effetti le ragioni per etichettarla come tale c’erano ed erano anche diversi.
Come numerose leggende metropolitane si basava infatti su una verità, in questo caso gli insuccessi commerciali dell’Atari di inizio anni Ottanta. Come molte leggende metropolitane lascia intendere l’esistenza di un complotto fatto da una grande azienda per nascondere qualcosa, in questo caso il clamoroso insuccesso nelle vendite. E soprattutto, più o meno recondita, ma questa storia ha una morale che fa leva sui timori, le ansie e le paure più ancestrali dell’essere umano: il seppellimento dei videogiochi come superamento dell’infanzia e passaggio all’età adulta.
Questi fattori e l’assenza di prove specifiche portarono questa storia del seppellimento dei videogiochi a essere tacciata come leggenda metropolitana, oggetto d’interesse solamente di una nicchia di appassionati del settore videoludico.
Nel 2014 la Microsoft commissionò un documentario intitolato Atari: Game Over sulla vicenda dei videogiochi, e durante le riprese furono effettuati alcuni scavi nel deserto di Alamogordo. Non sappiamo cosa chi scavava si sarebbe aspettato di trovare, ma sicuramente ciò che capitò sorprese tutti. Le famigerate cartucce della Atari erano proprio lì, dove da oltre trent’anni si diceva che fossero.
Ne furono rinvenute in tutto oltre 700mila, soprattutto di E.T. ma anche di altri titoli ed alcune di esse vennero rese fruibili. Circa 900 vennero vendute all’asta per una cifra complessiva di 108mila dollari, ma alcune di queste sono visibili anche a Roma, presso il VIGAMUS, il museo dei videogiochi, dove questi titoli sono anche giocabili.
Ecco il video del documentario, presente su YouTube: