Viaggio nella guerra dimenticata dello Yemen: il ritorno e l’arresto
L'ultima tappa del percorso di Laura Silvia Battaglia in Yemen, dove la guerra tra houthi e lealisti ha provocato la morte di quasi 10mila persone secondo i dati Onu
Tornare indietro da Sanaa al confine con l’Oman non è esattamente una crociera cinque stelle. Lo si fa con preoccupazione ed incertezza per l’esito del viaggio, sapendo che, come all’andata, le insidie sono tante e diverse.
Ma il ritorno, poiché equivale all’uscita da un Paese in guerra, di fatto, è estremamente difficile. Chi abbia avuto in sorte l’amaro destino di essere cittadino di un paese in conflitto sa che non è lecito scappare.
I confini tra gli Stati, quando è in corso una guerra, sono muri a volte molto visibili, a volte meno ma mostrano con evidenza tutta la loro durezza. In più, chi scappa in genere è solo chi se lo può permettere, in termini economici, di contatti, di permessi.
E questo lo rende un obiettivo appetibile per le milizie ma anche per la polizia di confine, che non vede l’ora di esercitare il suo potere per ricevere denaro facile, negando visti, adducendo balzelli e tasse inesistenti, facendosi allungare mazzette.
Così è capitato anche a noi. Il distacco dalla famiglia non è stato facile. La notte della partenza non un solo membro della famiglia tratteneva le lacrime. Erano tutti terrorizzati che qualcosa di male potesse accaderci: un rapimento, una deportazione, un blocco.
Uscire è più difficile che entrare, nello Yemen in guerra. Lo sappiamo tutti e non ci sono garanzie che l’operazione “exit” vada a buon fine. Ci avventuriamo sul solito pulmann, passando le solite 40 ore di viaggio, fermandoci nei soliti posti lerci, rispondendo o simulando le solite risposte plausibili alle milizie che fermano i viaggiatori.
Nella breve sosta di ritorno ci fermiamo ad Al Gheyda, ldove ’albergo locale pullula di prostitute scalze, che hanno il nauseabondo odore di oud. Le camere sono decenti e il canale dei film manda in onda a rullo le commedie del grande attore comico egiziano Adel Imaam, che veste sempre i panni di ispettori di polizia idioti e pasticcioni o di presidenti egiziani autoritari e crudeli.
Al sud dello Yemen c’è già aria di buone relazioni con i paesi confinanti. Sembra quasi che, di fatto, viga il potere di due presidenti. Nel nostro albergo, all’ingresso, troneggia sia il ritratto del presidente legittimo Abed Abo Mansur Hadi, originario di Aden, che quello del sultano omanita Qaboos bin Said al Said.
Dai discorsi raccolti tra gli uomini alla reception, nessuno si sbilancia sul presidente legittimo. Tutti si trincerano su un generico “c’è la guerra”, come dire “che cosa ci vogliamo fare”. Ma appena si gira la conversazione su Qaboos, tutti partono con dei gran panegirici.
Di fatto, il sultano omanita ha trasformato negli anni il suo paese in un’oasi di pace, ricca e, apparentemente, felice. Dico apparentemente perché chi conosce il Paese sa delle forti spinte separatiste della zona confinante con lo Yemen, il Dofar, e del razzismo interno che contrappone gli abitanti del Nord, più vicini agli Emirati, alle zone tribali del Sud.
Qui, nell’avamposto civilizzato a sud dello Yemen, ad al Gheyda, città carovaniera di commerci, affari e traffici, Qaboos rappresenta il mito del sovrano illuminato che tutti vorrebbero avere. E l’Oman è il Bengodi, la terra dei sogni a portata di mano ma non di piedi.
Di fatto, l’Oman nei due anni di guerra ha svolto un ruolo di grande equilibrio e mediazione. Solo recentemente si è allineato sulle scelte del Consiglio di cooperazione del Golfo (Gcc), non per decisione e opera di Qaboos, che tutti danno per morente: ha sempre favorito il dialogo con i ribelli del Nord, consentito passaggi e visti per motivi ospedalieri, accolto quegli yemeniti che, dimostrando di avere uno “sponsor”, vanno a lavorare nel Paese.
I rapporti di intelligence dicono anche che un carico di armi per il nord dello Yemen sia arrivato con un camion dal confine omanita. Ragione primaria del disappunto del Gcc.
Per gli yemeniti l’Oman è dunque l’unico vicino bendisposto. E noi non possiamo che confermarlo, a giudicare da come siamo stati trattati.
Il visto al confine di terra tra Yemen e Oman, a Sarfat, dalla parte yemenita, viene stampato immediatamente. L’ufficiale se la ride mentre mi consegna il passaporto. “Portami con te”, mi dice con l’occhio allungato verso il marito che invidia cordialmente a miglia di distanza.
Dopo un chilometro, un’altra sbarra e il secondo confine. In Oman si entra, dallo Yemen si esce: quindi i controlli, da parte omanita, sono molto più accurati. Perquisizioni, soldati dotati di sistemi per tracciare esplosivi, auto controllate fino all’ultimo spillo dalla carrozzeria al motore.
Si passa ai passaporti, ai bolli, ai timbri. La richiesta di passaggio della nostra ambasciata non basta. Di fatto, ci vuole lo sta bene della polizia di confine. Ma è un venerdì e i funzionari del ministero degli Esteri omanita, con cui dialoga l’ambasciata italiana per chiedere la nostra evacuazione, sono in vacanza.
È vacanza anche in Italia, per l’Epifania, quel giorno. Sta di fatto che gli unici funzionari dotati di buona volontà, da una parte e dall’altra, non parlano la lingua dell’altro. Al posto di blocco nessuno parla inglese. Il funzionario di ambasciata non parla arabo. Insomma, non ci si capisce ma ci vuole una comunicazione che arrivi certificata “dai piani alti” delle autorità omanite. E, per averla, bisogna aspettare qualche giorno.
Si prospetta il rischio che ci rimandino indietro. Avrebbero già mandato indietro mio marito, se non fosse che ci siamo battuti come leoni per non essere separati. E la fortuna è proprio quel bollo, quel timbro “exit” che il funzionario yemenita mi ha stampato con tanta cura. Grazie a quell’exit mi trovo in un limbo dal quale non posso uscire, se non andando avanti. Certamente non andando indietro. E mio marito con me.
Ci facciamo forti del bon-ton mediorientale che vuole che un uomo non lasci mai la sua donna e viceversa e scegliamo la detenzione temporanea per due notti e tre giorni al confine, in attesa che si sblocchi qualcosa. E così, chiusi in una casetta di 4 metri per 4, prefabbricata, posizionata esattamente un metro dopo la sbarra che segna il confine fisico tra Yemen e Oman, ci troviamo a raccontarci storie per ingannare il tempo, a rimestare nella memoria di quel che i nostri nonni, da mondi diversissimi, ci hanno raccontato da piccolini: il suo, cammelliere e carovaniere per davvero; la mia, femminista ante litteram in un’isola che le era ostile, la Sicilia.
Noi due, giovani adulti globalizzati che hanno sognato da sempre un mondo senza confini e continuiamo a comportarci come se questo mondo sia tale, siamo bloccati in quel metro, in quella forbice impietosa e ridicola che separa uno dei paesi più ricchi del mondo arabo da quello in assoluto più povero, che divide le stesse tribù e le stesse genti, la stessa vegetazione, gli stessi cammelli, lo stesso mare.
Per tre giorni e due notti abbiamo vissuto le nostre piccole prigioni come migliaia di famiglie di rifugiati attendono il verdetto su un altro confine. Loro con molta più sofferenza e assai meno speranze di noi. In quel limbo forzato, abbiamo guardato parecchie volte il mondo da dietro le sbarre e ci siamo detti semplicemente che sì, che la guerra è una brutta storia. La più brutta di tutte.
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