Viaggio nei manicomi cinesi
In Cina ci sono oltre 100 milioni di malati mentali. Ma solo il 20 per cento ha accesso ai trattamenti medici. Ecco le loro storie
Senza nome ha 46 anni, due grandi pozze grigie al posto degli occhi e un nido di rovi selvatici avviluppato sulla testa.
“Solo i controrivoluzionari sono infelici”: i genitori glielo avevano ripetuto ogni giorno, dieci, cento volte, fino allo stremo. Lui, livido in volto e con il lutto nell’animo, non sapeva spiegare come fosse precipitato nel limbo dell’apatia e come a volte, d’improvviso, un’energia violenta, un demone indomito, lo risvegliasse per tormentarlo.
Quando il medico psichiatra He Jiyue scoprì nel 2007 la sua storia, lo trovò nascosto in una sorta di loculo, dove era stato rinchiuso dai genitori per 28 anni, dietro una porta di metallo in uno straccio di terra putrida nella loro abitazione. Vivevano in un villaggio rurale della provincia cinese dell’Hebei, nell’est del Paese.
Senza nome non parlava ormai più da tanti anni, smarrito in un corpo legnoso e alienato con la sua testa dai capelli arruffati, un cespuglio senza coscienza, la sua controrivoluzione.
“Come avete potuto fare questo a vostro figlio?”, chiese il dottor Jiyue agli anziani genitori-carcerieri. Loro risposero di non aver avuto alternative.
Nevrosi, schizofrenia, devianza, paranoia, disturbi della personalità. Lo stigma sociale e il tabù nei confronti della malattia mentale in Cina ha radici vecchie e germogli nuovi, nutrito dal pregiudizio, dal rigetto e dall’esclusione di chi ne è affetto, ed è oggi la vera piaga dello sviluppo della nuova società del benessere cinese.
Ancora ai giorni nostri, nelle aree rurali interne più remote del Paese, si pensa che le malattie mentali siano causate da squilibri dei fluidi e degli organi vitali, assoggettati alla forza delle cariche positive e negative dello yin e dello yang, concetto dell’antica filosofia cinese.
Si pensa inoltre che i disturbi siano provocati da una deviazione del cosiddetto qi, il flusso energetico, il “fuoco che prende una direzione sbagliata e lascia entrare il demone” nel corpo.
A far piombare il disagio mentale in una coltre nebulosa, confusa e indistinta, ha contribuito il monolitismo totalitario del pensiero di Mao Zedong, sistematicamente diffuso e applicato in ogni ambito della società, grazie alla pubblicazione nel 1964 del Libretto Rosso, la raccolta di tutte le citazioni del Gran Timoniere Mao Zedong, a opera del dipartimento politico generale dell’Esercito di Liberazione Popolare.
Dal 1949, anno di fondazione della Repubblica Popolare Cinese, fino ai primi anni Ottanta, le etichette psichiatriche dilaganti in Occidente di alcune patologie dell’affettività e della mente come la “depressione” e la “schizofrenia” erano un argomento tabù in Cina.
Gli studi di psicologia furono marchiati come “inutili al 90 per cento, per il resto sono falsa coscienza, prodotto della borghesia”, incompatibili quindi con il corretto pensiero politico, quello maoista.
In un articolo anonimo pubblicato il 10 agosto del 1971 sul Renmin Ribao e intitolato Fare affidamento sul pensiero di Mao Zedong per guarire le malattie mentali, si legge: “La squadra sanitaria e il personale dell’ospedale psichiatrico della zona di Chenzhou si sono resi profondamente conto del fatto che per curare le malattie mentali la cosa fondamentale è educare i malati e gestire l’ospedale servendosi del pensiero di Mao Zedong”. Tutto il resto è controrivoluzionario.
Tristezza, disagio affettivo ed espressione della sofferenza emotiva sono stati interpretati e rappresentati per decenni come riflesso del dissenso e della politica antagonista, quindi scoraggiati, acutizzando la marginalizzazione degli individui malati e lo stigma sociale.
Così che una moltitudine di patologie disparate di disturbo psichico sono state fatte confluire tutte sotto un unico “mantello sociale”: la nevrastenia (shenjing shuairuo), una diagnosi non-stigmatizzante perché comprende tutto e niente, che consente ai malati di sfuggire alla denuncia politica e al pregiudizio.
Nel 1950, il 2,7 per cento della popolazione adulta cinese era affetta da malattia mentale. Nel 1970, il 5,4 per cento; nel 1980, l’11,1 per cento, mentre nel 1990 il 13,4 per cento e oggi, secondo il ministero della Sanità di Pechino, la Cina ha ben oltre 100 milioni di malati mentali, tra i quali 16 milioni sono affetti da malattia mentale grave, e solo il 20 per cento di questi gode di un trattamento medico e terapico.
Risulta difficile dar credito alle stime statistiche registrate durante il governo di Mao a causa dell’utilizzo ideologico delle classificazioni delle malattie mentali, e senza dubbio, come sottolineato dal direttore del Centro Nazionale per la Salute Mentale, Huang Yueqin, “il governo non ha prestato molta attenzione alla salute mentale pubblica nel corso degli ultimi cinquant’anni, e non ha investito molto in trattamento o cura”.
Il più grande onere per il sistema sanitario cinese, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, è proprio la malattia mentale, che ha superato di gran lunga il cancro e le patologie cardiache.
Il 17,5 per cento della popolazione adulta cinese è affetto da disturbi mentali, secondo quanto riportato dalla rivista scientifica The Lancet. Il fenomeno si è sviluppato notevolmente negli ultimi trent’anni di apertura e sviluppo economico, e il governo cinese ha dovuto riconoscere la gravità del problema e avviare una riforma del sistema sanitario.
La transizione da un’economia pianificata al libero mercato, la precarietà della sicurezza del lavoro, il cambiamento dei valori tradizionali nella società e nella famiglia, la richiesta di standard di vita sempre più elevati, sono solo alcune delle cause che fanno vibrare i nervi scoperti della nuova società cinese.
Nella sola metropoli di Pechino ci sono più di 40mila pazienti a cui è stato diagnosticata una depressione e in altre città, come Qingdao, nel nordest della Cina, si riscontra un incremento dieci volte superiore dei malati mentali negli ultimi 10 anni.
È stato stimato che in Cina almeno un terzo dei suicidi – 300 mila all’anno quelli resi noti – è commesso da individui affetti da disagio psicosociale, e il 75 per cento degli omicidi è causato da soggetti patologici.
La gran parte di loro non è mai entrata in un centro di salute mentale, né è mai stata sottoposta a cure mediche da professionisti del settore. Questo perché solo il 5 per cento dei malati riconosce di esserlo e accetta i trattamenti, ma soprattutto perché la Cina non ha un diritto sanitario nazionale mentale, il servizio non è modernizzato (gli istituti psichiatrici sono 600 e 11 mila i posti letto), gli specialisti scarseggiano per numero e formazione.
Solo il 20-25 per cento della popolazione cinese beneficia di un’assicurazione sanitaria, che in ogni caso non copre i servizi per la salute mentale, pertanto sono 800 milioni i cittadini senza cure e il 90 per cento degli schizofrenici viene tenuto in casa senza terapia o sotto effetto di droghe e allucinogeni.
La malattia mentale non sembra risparmiare neppure i più piccoli: il 15-20 per cento dei bambini nel mondo affetti da disturbi mentali è cinese. La pressione del cambiamento sociale e la frustrazione degli adulti si riflettono sensibilmente sui bambini, che subiscono anche subire lo squilibrio generato dalla rigidità della legge del figlio unico.
Un cinese su 12 ha bisogno di cure psichiatriche, eppure non le ottiene, come riporta la rivista britannica The Lancet. Dunque, la probabilità di un aumento delle tensioni sociali e del disordine interno potrebbe essere imminente.
Per questa ragione il ministero della Sanità concentra gli sforzi per reperire risorse e accelera verso l’adozione della bozza della legge nazionale sulla salute mentale, che è stata resa pubblica nel giugno 2011, dopo cinquant’anni dalla prima.
Alcuni punti della nuova bozza fanno emergere nodi di criticità, come l’articolo 27 che disciplina e consente l’arresto involontario in caso di “disturbo dell’ordine pubblico”.
Sì, perché se i posti letto nelle strutture psichiatriche sono pochi e i malati più aggressivi rimangono nelle proprie abitazioni senza cura, è anche perché il loro posto è stato assegnato forzatamente a individui non affetti da malattia mentale ma “disturbatori dell’ordine pubblico”, categoria nella quale negli ultimi anni sono stati inclusi attivisti, dissidenti e antagonisti politici scomodi o corrotti.
La strada è ancora lunga e da questa prospettiva sembra esser cambiato poco da quando le Guardie Rosse inneggiavano ai motti maoisti durante la Rivoluzione Culturale. Anche oggi forse “i controrivoluzionari sono infelici”.