Viaggio nella guerra dimenticata dello Yemen: lungo la via della seta
La prima tappa del percorso di Laura Silvia Battaglia in Yemen, dove la guerra tra houthi e lealisti ha provocato la morte di oltre 10mila persone secondo i dati Onu
Quaranta chilometri solo andata, tre giorni di viaggio, 15 check point rappresentativi di ogni gruppo armato. A volte tocca fare dei viaggi mitologici con tutt’altro spirito da quello immaginato in tempi migliori.
Anni fa, il lungo percorso dall’Oman al nord dello Yemen, passando per Shibam, la Manhattan del deserto, l’Hadramawt e il Marib, era la manna degli archeologi e dei turisti orientalisti in cerca delle vestigia della regina di Saba lungo la via della seta.
Lo si faceva con spirito di avventura, con fremito romantico, e la certezza di tornare indietro carichi di argenti, incensi e mirra.
Oggi è l’unica via percorribile solo da yemeniti o dai loro parenti di vario grado, anche se stranieri, per risalire il paese da sud a nord, rischiando in parte il fermo, la detenzione, il rapimento temporaneo.
Lo si fa con una incosciente paura, e lo si fa dopo aver a lungo raccolto di informazioni da parte di coloro che sono già passati, nei giorni precedenti.
(Viaggiatori sul pullman da Al Ghayda a Sanaa, ingannano il tempo, durante le 40 ore di viaggio, guardando film d’azione e di guerra. Credit: Laura Silvia Battaglia. Il pezzo continua sotto la foto)
Le domande più frequenti sono: che giro fa il bus? Il bus è vecchio o nuovo? Si ferma lungo la via e dove? Quanti sono i check point? Di chi sono i check point? Cosa chiedono i militari o i miliziani? Cosa pretendono? Sono tranquilli o tesi? E così via.
Decisa l’impresa si sale sul pullman bianco. E il passaggio da Salalah, la città più grande del Dofar, in territorio omanita, ai villaggi sull’Oceano Indiano in Yemen, è un pugno nello stomaco.
Per il suo struggimento. Perché dai filari ordinati delle aziende agricole che producono latte di cammello in Oman, si passa all’irregolarità selvaggia del paesaggio marino yemenita, puntellato qua e là e poi sempre più spesso da leggeri sacchetti di naylon rossi, bianchi o blu, che pendono, come prugne secche, dagli alberi aridi affacciati sulla spiaggia.
I pescatori – solitamente somali rifugiati residenti in Yemen da anni – sono poveri e lavorano alla giornata. Non conducono al pascolo vacche grasse come gli omaniti ma caprette emaciate.
Il paesaggio prosegue tra spiagge dorate e rocce puntute fino a un centro brulicante di esseri umani: al Ghaydah. Una città senz’anima, come tutte le zone di confine dove si mendica e si traffica, dove gli alberghi pullulano di prostitute profumate con oud nauseanti e con i piedi nudi insabbiati.
E dove una fila di autobus sta ad aspettare i pellegrini di questa guerra. I ritratti del presidente yemenita Mansur Hadi che sovrastano le hall degli edifici non sono mai separati da quelli del sultano omanita Qaboos Said al Said.
Ad al Ghaydah si cambia stazione sulla via crucis verso Sanaa. E si sale su un altro vettore, anche questo bianco ma molto più grande. I viaggiatori su questo bus sono quasi tutti uomini, oltre qualche rara famiglia.
(Deserto dell’Hadramouth. Credit: Laura Silvia Battaglia. Il pezzo continua sotto la foto)
La maggior parte sono soldati di stanza al sud che tornano dai parenti al nord. Gli altri sono yemeniti che vivono all’estero, solitamente nel Golfo, e che non hanno altra opzione che sobbarcarsi la fatica di un lungo viaggio simile, solitamente dopo essere atterrati ad Aden, se non possono avere un visto per l’Oman.
Tra i passeggeri si stabilisce subito una mutua assistenza. Andranno tutti a pisciare allo stesso momento e chiederanno di fermarsi nello stesso posto per acquistare acqua, succhi di frutta e biscotti. Pretenderanno una sosta più lunga in due ristoranti. Faranno testuggine appena i soldati o i miliziani ai check point saliranno sul bus per gli interrogatori di prammatica.
I tratti più lunghi, noiosi o tortuosi, con una lunga quantità di chilometri su pista e non su strada, tra i valichi di montagna, si affrontano guardando film d’azione da uno schermo con tubo catodico degli anni a Ottanta che sovrasta l’autista. Film richiesti: Rocky, Rambo, La notte dei morti viventi, Platoon, tutti i film con Bruce Lee. Violenza pura virtuale che serve a scaricarsi e scacciare la paura vera ai check point.
Quasi nessuno all’andata mastica qat (una droga coltivata tipicamente in Yemen) ma qui, i pochi che lo hanno in tasca, se lo riservano per l’ultimo tratto, più rilassante, da Rada a Sanaa. La paura sale la piena dall’Hadramawt in poi.
Alcuni check point sono deserti. In altri posti di blocco salgono sul pullman uomini incappottati e incappucciati con grosse pietre alle dita e lunghe barbe curate. Interrogano senza pietà gli uomini che viaggiano da soli. Lasciano in pace solo gli uomini accompagnati da una donna o dalla famiglia.
Non chiedono nemmeno i documenti alla donna ed è uno di quei casi in cui lo stare nascoste dentro il niqab in una società che ti preferisce nascosta se non invisibile, è un enorme vantaggio che ti rende potente nell’intoccabile anonimato.
(Pick up lungo il passo tra Oman e Yemen, in territorio yemenita dopo il confine di Sarfeth. Credit: Laura Silvia Battaglia. Il pezzo continua sotto la foto)
Ad un certo punto, i check point di soldati lealisti prima, del movimento separatista del sud – l’Hirak – poi, e delle tribù qaediste più avanti, lasciano spazio a ragazzi strafatti di qat, con occhi spiritati, capelli lanuti, corpi emaciati.
Sono i ribelli houti. Questi chiedono molte cose, troppe cose. A volte sono sovraeccitati. Controllano i telefoni, cercano foto su whatsapp e segnali di disobbedienza dei viaggiatori.
Soprattutto odiano i soldati lealisti. Durante il nostro percorso ne hanno preso uno, reo di non essersi dichiarato tale. L’ho visto essere preso di peso ed essere fatto sedere sul ciglio della strada, quasi sotto il bus: era rimasto accovacciato e si era acceso una sigaretta per stare più comodo e rilassato. Chissà che fine ha fatto.
Un viaggio così lungo ha anche un capitolo poco elegante ma necessario: le latrine peggiori si trovano nelle soste dopo Masiwnah, un passo al confine con l’Oman da un lato e l’Arabia Saudita dall’altro; è un posto noto per il mercato illegale di auto rubate, dove si ammassano camion di trasporto di gasolio nei parcheggi bollenti per il sole a picco.
Qui, in particolare, le latrine della via della seta hanno strati di sporco incrostati da millenni, e nelle stuoie stese per terra nel ristorante a mo’ di tovaglia da tavola, la cacca di topo marca il territorio agli angoli del pavimento.
Ma il pane è squisito, sottile, friabile. Una delizia per il palato che fa dimenticare i chilometri di polvere e di bisogni trattenuti per non dovere conoscere altre latrine.
Mangiando i chilometri, il primo giorno passa così: 7 checkpoint, 2 pasti e 2 latrine. Al secondo giorno, appena superata Saywun, Shibam, la Manhattan del deserto, appare come una visione tra le brume polverose dell’alba.
(La città di Shinbam, detta la Manhattan del deserto, appare dalle brume dell’alba come un miraggio, sulla via della Seta. Credit: Laura Silvia Battaglia. Il pezzo continua dopo la foto)
La sua bellezza si staglia all’orizzonte e la pietra rosata rende il miraggio etereo e gentile. Questa è una di quelle bellezze che spontaneamente emergono dal paesaggio desertico e roccioso, e che rafforzano la convinzione di molti che lo Yemen sia uno dei paesi più belli del mondo.
Ma non c’è dolcezza in Yemen senza amarezza. E allora, la tappa di Rada, ultimo avamposto nel Marib, mostra chiaramente che qui non sei tanto sulla via della seta ma sulla via della guerra.
I check point solo in questa città di passaggio sono cinque, gli ultimi a nemmeno un chilometro l’uno dall’altro.
La strada principale pullula di faccendieri sfaccendati, pulizieri, bambine mendicanti. Tutti yemeniti black skinned o rifugiati dal Corno d’Africa. Vicino a un’auto due uomini litigano e un capannello di una ventina di persone si fa loro intorno per dividerli quando uno dei due tira fuori il coltello. Volano parole grosse, schiaffi. Tutti gridano.
Una ragazzina mendicante abborda l’autista. Vorrebbe salire e chiedere danaro ma lui glielo vieta. Partono gli insulti vicendevoli. L’uomo la apostrofa: “Sei solo merda, sei spazzatura”.
Lei grida e protesta il suo diritto ad avere il suo danaro: gli dà del cane. Anche qui, la scena muta in zuffa quando altre tre mendicanti donne, poco più adulte di lei, la apostroferanno accusandola, con il suo comportamento, di rovinare loro la piazza dei clienti.
A Rada non c’è pietà. La mancanza di misericordia si annuncia da sola anche mentre entriamo di notte a Sanaa, buia e sinistra, con i miliziani houti abbarbicati ai check point nel freddo della sera, intorno a qualche fuoco improvvisato.
I controllori notturni fanno luce sul convoglio con le torce e salgono a bordo del bus bianco per l’ultimo, interminabile, interrogatorio liberatorio: chi sei, cosa ci fai qui, qual è la tua tribù ma soprattutto ripeti con me, forte e chiaro: “Morte all’America, morte a Israele”.
(Qui sotto una foto dell’autrice In Iraq)