Venezuela: ecco perché il potere di Maduro non è mai stato così a rischio
Pressioni internazionali, crisi economica, il ruolo dei militari: il presidente sotto pressione coma mai prima d'ora. L'analisi di Nicola Bilotta, ricercatore dell'Istituto Affari Internazionali (Iai)
È inaspettatamente esplosa la tensione in Venezuela. Il presidente dell’Assemblea nazionale, Juan Guaidó, si è autoproclamato presidente “protempore” del paese alla conclusione di una marcia per le strade di Caracas sfidando apertamente Nicholas Maduro [chi è Juan Guaidò].
La risposta governativa non si è fatta però attendere. Maduro, dopo aver chiamato a raccolta i suoi sostenitori, ha accusato Guaidó di essere la marionetta degli Stati Uniti e ha chiamata il popolo venezuelano alla resistenza.
Dopo una giornata di scontri, che hanno già lasciato sul campo più di otto morti e centinaia di arrestati, il Venezuela si trova sul baratro della guerra civile.
Sono bastati venti minuti al governo statunitense per riconoscere ufficialmente il nuovo presidente e per chiedere un passo indietro di Maduro. Donald Trump si è anche detto disposto a vagliare qualsiasi opzione per garantire un percorso democratico in Venezuela ventilando anche la possibilità di un intervento militare.
Se non ha stupito l’immediato appoggio americano a Guaidó, la rapidità con cui la maggioranza dei governi della regione sud americana ha riconosciuto il nuovo presidente rappresenta il vero punto di rottura che potrebbe incentivare una transizione democratica nel paese.
Rispetto a qualche anno fa, lo scenario macro-politico del sud America è radicalmente mutato trascinando il governo di Maduro in un crescente isolazionismo. La recente vittoria di Jair Bolsonaro in Brasile è solo l’ultimo evento che testimonia un’inversione di tendenza nella regione con la fine del ciclo di governi di sinistra nella regione.
Oggi i governi dei paesi più influenti dell’area – tra cui Argentina, Colombia e Brasile – sono guidati da governi ideologicamente lontani da Maduro. È proprio il mutamento del contesto geopolitico regionale che rende questo scontro istituzionale qualitativamente differente rispetto al 2017, quando le opposizioni furono duramente represse dalle forze governative e la risposta internazionale non fu così decisa.
Il secondo fattore critico che gioca a svantaggio di Maduro è il continuo peggioramento delle condizioni economiche del paese. Tra il 2014 e il 2017, il Pil del paese si è contratto del 30 per cento, mentre l’inflazione sta raggiungendo cifre che superano il milione percentuale.
La produzione petrolifera nazionale è crollata da 2,5 milioni di barili al giorno nel 2015 a 1,1 milioni di barili a novembre 2018 riducendo di conseguenza sia l’accesso a valuta estera, indispensabile per finanziare le importazioni, sia le entrate nelle casse pubbliche.
Le ripercussioni sul popolo venezuelano sono state tremende, essendo venuti a mancare beni di prima necessità – come medicinali e cibo –, costringendo più di 1 milione e 300 mila venezuelani a scappare dal 2015 ad oggi.
Le sanzioni americane hanno inasprito le già precarie condizioni strutturali dell’economia venezuelana. Se fino al 2017 le sanzioni Usa avevano come unico obbiettivo quello di colpire alcuni alti funzionari o politici venezuelani congelandone i beni e impedendone i visti per gli Stati Uniti, con le sanzioni introdotte dall’amministrazione Trump nell’agosto 2017, Washington ha leso direttamente l’economia venezuelana limitando l’accesso del governo di Maduro al mercato finanziario statunitense.
Proibendo l’acquisto di obbligazioni emesse dalla Banca centrale venezuelana e di nuovo debito della Petroleos de Venezuela, la compagnia petrolifera statale, si è voluto ostacolare al paese di Maduro la possibilità di ri-finanziare le casse pubbliche. Gli Stati Uniti hanno anche adottato delle nuove sanzioni nel novembre 2018 che hanno proibito l’esportazione di oro dal Venezuela.
L’industria dell’oro è divenuta, dopo il crollo della produzione petrolifera, una risorsa chiave per finanziare le casse pubbliche e acquisire valuta estera. Si consideri che nei primi mesi del 2018 il Venezuela ha esportato solo in Turchia oro per un valore di circa 900 milioni di dollari.
Nel corso dei primi mesi del 2018, secondo fonti giornalistiche, ci sono stati circa 172 diserzioni tra i militari venezuelani, un numero in netta crescita rispetto al 2017 ma che ancora non testimonia uno scollamento rilevante tra gli alti ufficiali e il governo di Maduro.
Pochi giorni fa è stata diffusa la notizia che un gruppo di militari, successivamente arrestati, avrebbe attaccato una caserma della Guardia Nazionale a Caracas rivolgendo poi un appello alla rivolta sui social networks.
Nonostante la risonanza mediatica dell’accaduto, sembra fossero coinvolti solo ufficiali di basso rango la cui azione non dovrebbe far presagire una presa di posizione netta delle forze militari contro Maduro.
Fin dalla presidenza Chávez, il rapporto tra governo e alte gerarchie militari è stato molto stretto. Sotto Maduro il ruolo degli alti funzionari militari all’interno della macchina governativa si è ulteriormente rafforzato con il conferimento di posizioni di rilievo nelle aziende statali, nel governo e nei programmi sociali pubblici.
Gli Stati Uniti e le opposizioni antigovernative sono consapevoli che senza l’appoggio delle forze militari sovvertire Maduro potrebbe essere difficile se non impossibile.
Malgrado il ministro della Difesa Lopez abbia garantito la fedeltà dell’esercito al governo di Maduro, Guaidó ha cercato di guadagnarsi il loro supporto garantendone l’immunità. Anche il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha esortato i militari venezuelani a unirsi alla rivolta contro Maduro.
Quella di mercoledì 23 gennaio 2019 è stata una giornata storica. Il potere autoritario di Maduro non è mai stato così sotto pressione come oggi. Maduro potrebbe aver già perso senza esserne consapevole.