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Home » Esteri

Negli Usa di Trump la libertà di espressione cade a pezzi

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Manifestanti pro-Palestina in protesta alla Trump Tower di New York. Credit: AGF

Studenti arrestati. Giornalisti esclusi dalla Casa bianca. E quel film Oscar sgradito che non viene distribuito. Nel Paese governato dal tycoon non c'è spazio per il dissenso

Mercoledì 19 marzo, Miami Beach, Florida. Steven Meiner, sindaco in carica non affiliato ad alcun partito, dichiara di voler tagliare i fondi comunali – oltre 40.000 dollari – all’associazione no-profit 0 Cinema, che rischia così la chiusura dopo essersi già vista tagliare i fondi statali dal governatore Ron De Santis, repubblicano. Il cinema è accusato dal sindaco di propaganda d’odio per aver messo in programma No Other Land, documentario diretto da un collettivo di registi israeliani e palestinesi, premiato agli Oscar, che racconta la storia di un gruppo di attivisti palestinesi che si oppongono alla distruzione del villaggio di Masafer Yatta, in Cisgiordania, da parte delle forze di occupazione israeliane. 

Uno dei registi della pellicola, Hamdan Ballal, nelle scorse settimane è stato aggredito da un gruppo di coloni israeliani a Susiya, in Cisgiordania, e poi arrestato dall’esercito israeliano, che lo ha rilasciato dopo alcune ore.

Il film premio Oscar non ha trovato alcuna distribuzione non solo in Israele, ma nemmeno negli Stati Uniti.

Vietato criticare Israele
Meiner, ebreo ortodosso di Brooklyn residente a Miami Beach dal 2007, è un fervente sostenitore di Israele. Eletto sindaco nel novembre del 2023 con il 54% dei voti, in una lettera inviata al Miami Herald definisce il film «un attacco propagandistico unilaterale al popolo ebraico» e chiede a Vivian Marthell, amministratrice delegata di 0 Cinema, di riconsiderare la sua decisione di mandare in onda il film «a nome dei residenti di Miami Beach». «La nostra città ha adottato una forte politica di sostegno allo Stato di Israele nella sua lotta per difendere sé stesso dagli attacchi delle organizzazioni terroristiche Hamas e Hezbollah», si legge nella lettera. «La messa in onda di No Other Land in una sala cinematografica di proprietà del Comune e gestita da 0 Cinema è sconcertante».

Il sindaco non è nuovo a tacciare di antisemitismo i suoi avversari. Durante la campagna elettorale del 2023 sono emerse nei suoi confronti accuse di molestie sessuali da parte di alcune sue ex colleghe, ai tempi in cui l’uomo lavorava per la U.S. Securities and Exchange Commission, agenzia governativa che vigila sulle manipolazioni del mercato di investimenti. La vicenda era stata messa a tacere da Meiner, che contro-accusò le presunte vittime di abusi di essere antisemite e di averlo preso di mira in quanto ebreo ortodosso.

La risposta dello 0 Cinema e della comunità artistica che lo sostiene non si è fatta attendere. Un gruppo di oltre 750 registi, fra cui Barry Jenkins (Mufasa – Il re leone, La ferrovia sotterranea) e Billy Corben (Cocaine Cowboys, From Russia with Lev), ha scritto una lettera aperta condannando le azioni del sindaco, definendole «un’offesa agli abitanti di Miami Beach, e di Miami nel suo complesso». 

Nel frattempo, 0 Cinema ha lanciato una raccolta fondi per garantire la propria indipendenza economica e ha mantenuto il film in programmazione. Vivian Marthell, spalleggiata da molti gruppi per i diritti civili come Miami Light Project, Community Justice Project e dalla American Civil Liberties Union (Aclu), ha dichiarato che «0 Cinema è da tempo noto per il suo impegno nel presentare un’ampia gamma di voci e punti di vista. La capacità di documentare la storia e di condividere prospettive diverse è un diritto fondamentale del Primo Emendamento, che non può essere cancellato o soppresso solo perché chi è al potere disapprova un particolare messaggio». 

Alla fine, al termine di una burrascosa riunione, i consiglieri comunali hanno bocciato a maggioranza la proposta del sindaco. «0 Cinema ha la responsabilità di garantire che questioni importanti come questa vicenda siano presentate con correttezza ed equilibrio», ha dichiarato il consigliere di Miami Beach Alex J. Fernandez. «Ma questa responsabilità non dovrebbe derivare da un mandato governativo. Se oggi iniziamo a controllare i contenuti artistici, dove ci fermiamo?». 

Media sotto attacco
Questa vicenda è solo uno dei tasselli di un grande mosaico: la crisi verticale della libertà di espressione negli Stati Uniti della nuova era Trump. La prima a subire attacchi è stata la libertà di informazione. 

Lo scorso 5 febbraio ci aveva già avvertiti Martin Baron, ex direttore del Boston Globe durante l’inchiesta sugli abusi sessuali contro i minori nella diocesi di Boston: «Quando si ha un presidente che incita ogni giorno l’opinione pubblica americana contro la stampa, aumentano le probabilità che accada qualcosa di terribile». 

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La probabilità è oggi una certezza. Fra il primo settembre e il 21 ottobre 2024, in piena campagna elettorale, Trump ha attaccato la stampa in 108 occasioni (più di due volte al giorno), arrivando perfino ad affermare «Non mi importerebbe se qualcuno sparasse a un giornalista». Poi, fin dal suo insediamento ha lavorato sistematicamente contro la stampa “nemica”: buona parte delle emittenti televisive statunitensi, con l’eccezione di Fox News, alcune agenzie e molti quotidiani. 

In occasione dell’incontro-scontro fra la coppia Trump-Vance e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, lo scorso 28 febbraio, la Casa Bianca ha escluso i reporter della Reuters e della Associated Press, colossi dell’informazione internazionale, rei di essersi rifiutati di usare il termine Golfo d’America proposto dalla nuova amministrazione in sostituzione di Golfo del Messico.

Desaparecidos
Questo attacco alla libertà di espressione coinvolge tutti coloro che vivono sul suolo statunitense ed esprimono opinioni contrarie a quelle dell’esecutivo. Come annunciato di recente dal segretario di Stato Marco Rubio, in questi primi tre mesi sono stati ritirati i visti di oltre trecento studenti, a volte residenti da anni negli Stati Uniti, colpevoli solo di aver supportato la causa dell’autodeterminazione del popolo palestinese nelle manifestazioni dello scorso anno. L’ondata di arresti, detenzioni e deportazioni ha coinvolto numerosi studenti che non sono accusati di aver commesso alcun reato, se non reati d’opinione. 

Uno dei primi fra gli arrestati, Mahmoud Khalil, è un residente permanente negli Stati Uniti da poco laureatosi alla Columbia University. Khalil è noto non solo per aver partecipato ai cortei pro-Palestina, ma anche per essere stato una figura centrale nella mediazione fra i manifestanti e l’università. Khalil non è colpevole di devastazioni o altri reati. Ciononostante, è detenuto da quasi un mese in un carcere della Louisiana, con l’unica accusa di aver espresso delle posizioni non in linea con il nuovo esecutivo. 

L’ombra del maccartismo – ma qualcuno direbbe dei desaparecidos – si allunga su molti casi simili a quello di Khalil. Prendiamo Rumeysa Ozturk, dottoranda alla Tufts University, coinvolta nel movimento pro-Palestina, mentre si recava in un locale per una serata fra amici è stata circondata da sei uomini qualificatisi come agenti dell’Ice, l’agenzia federale per l’Immigrazione che risponde direttamente al presidente. Il video del suo arresto, catturato da una telecamera di sicurezza, mostra i sei uomini in abiti civili e passamontagna che trattengono la ragazza in modo violento e la ammanettano. 

La storia di Ozturk – molto simile a quella di altri studenti internazionali come Yunseo Chung, Momodou Taal, Ranjani Srinivasan – è diventata il simbolo dell’angoscia nella quale gli studenti internazionali vivono oggi la propria condizione negli Stati Uniti.

Mentre le università sono sotto ricatto politico ed economico da parte dell’esecutivo, che scavalcando il Congresso ha già tagliato fondi per 400 milioni di dollari alla Columbia e per 100 milioni alla University of Pennsylvania, e mentre la società civile sembra annichilita dalla rapidità dell’azione governativa, la libertà di espressione negli Stati Uniti viene messa ogni giorno più in discussione.

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