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Home » Esteri

Il nuovo dis-ordine mondiale e la fine dell’Occidente geopolitico

Immagine di copertina
Credit: AGF

Prima la rottura con l’Ucraina e l’avvicinamento alla Russia. Poi gli insulti agli europei e i dazi universali. Così Donald Trump sta portando gli Usa fuori dal perimetro dell’Alleanza forgiata durante la Guerra fredda, picconando la globalizzazione. L'America First non è uno slogan elettorale ma un nuovo mondo

Era, ovviamente, una battuta ma quando a marzo, prima di partire per i primi colloqui con Ucraina e Russia in Arabia Saudita, il segretario di Stato Marco Rubio assicurò che gli Stati Uniti non avrebbero «fornito armi ai russi», a Kiev e nel resto d’Europa ci si sentì gelare il sangue. Allora Rubio non voleva escludere una ripresa degli aiuti all’Ucraina, se Volodymyr Zelensky avesse accettato di «impegnarsi nei negoziati». Ma il disgelo con la Russia non era solo funzionale alle trattative. Malgrado Kiev abbia ceduto praticamente su tutto e la Casa bianca abbia annunciato un primo accordo con i due contendenti, la politica di Trump non ha portato alcuna tregua in Ucraina, mentre il corteggiamento del Cremlino appare una mossa tutt’altro che tattica, capace di determinare, con il combinato disposto dei dazi, la fine dell’Occidente geopolitico.  

Effetto “Casa bianca”
La lite di fine febbraio tra Zelensky e Trump è stata la punta dell’iceberg. Il magnate aveva già attaccato il presidente ucraino definendolo un «dittatore» e accusato Kiev di essere responsabile del conflitto per non aver raggiunto prima un accordo con Mosca. Quindi, nel terzo anniversario dell’invasione, gli Usa avevano votato con Russia, Corea del Nord, Bielorussia e altri 14 Paesi, tra cui Israele e Ungheria, contro la risoluzione Onu di condanna del Cremlino. Allora il punto focale era il negoziato tra Washington e Kiev su un accordo per la condivisione delle risorse minerarie ucraine (terre rare comprese) con gli Usa, visto dalla Casa bianca sia come una compensazione per gli aiuti inviati al Paese invaso che come una garanzia contro future aggressioni. L’assenso di Zelensky all’intesa, non ancora conclusa, portò Trump a rimangiarsi le minacce contro il presidente ucraino, invitato a Washington proprio per firmare e finito invece in un disastro diplomatico. Da allora, malgrado i tentativi di ricucire di Zelensky, i rapporti tra Usa e Ucraina non sono migliorati, mentre la sponda russa è sempre più viva.

Se dopo la querelle i governi europei sono accorsi a sostenere il presidente ucraino, organizzando improbabili coalizioni di «volenterosi» capitanate dal Regno Unito post-Brexit, il portavoce del Cremlino Dimitrij Peskov ha osservato come «il rapido cambiamento della politica estera (degli Usa, ndr) coincide in gran parte con la visione» di Mosca. D’altronde Vladimir Putin pare aver subito capito l’antifona e, oltre a fiondarsi al tavolo delle trattative in Arabia Saudita dopo tre anni di scontro militare indiretto e una guerra economica a colpi di sanzioni, si è offerto di rifornire gli Usa di minerali critici durante i concitati giorni di trattative con Kiev. Ma non è finita qui.

L’inviato di Trump per il Medio Oriente e l’Ucraina Steve Witkoff ha di fatto riconosciuto i referendum farsa con cui Mosca ha giustificato prima l’annessione della Crimea nel 2014 e poi quella delle regioni ucraine (non ancora del tutto conquistate) di Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhia e Kherson nel 2022, affermando che il problema centrale del conflitto non è obbligare la Russia a ritirarsi dal Paese invaso né la questione dell’adesione di Kiev alla Nato, ormai di fatto esclusa, ma il rifiuto di Zelensky di ufficializzare lo status quo. Non solo: dopo il primo accordo raggiunto a Riad, Washington ha annunciato di voler valutare un allentamento delle sanzioni contro Mosca, senza però discuterne con gli alleati europei. Per rovinare la luna di miele tra il presidente Usa e il leader russo non è bastata nemmeno l’assurda proposta di Putin di formare un governo a Kiev sotto l’egida Onu per poi indire nuove elezioni, coinvolgendo nelle trattative i Paesi Brics e persino Pyongyang. Un’idea che ha fatto «arrabbiare» Trump, subito calmato dalle rassicurazioni di Peskov, secondo cui ci vuole poco a organizzare un altro colloquio tra i due presidenti. Insomma, basta una telefonata e la pillola va giù. La lite con Zelensky e il disgelo con Mosca appaiono infatti solo come il primo tempo di una nuova gara tra le grandi potenze in funzione anti-cinese, a cui l’Europa può contribuire soltanto assecondando i desideri americani, come ad esempio sulla Groenlandia.

Vecchi amici
Liquidata durante il primo mandato del magnate come una querelle stravagante, come dimostra la visita nel territorio autonomo danese del vicepresidente Usa JD Vance, la questione groenlandese costituisce un’aperta rivendicazione territoriale da parte del principale contraente dell’Alleanza Nato contro uno dei suoi membri europei, teoricamente protetto dall’obbligo di mutua assistenza degli altri alleati, anche a livello Ue. Ma qui, come sottolineato persino Putin, Trump fa sul serio e l’intera vicenda mostra la considerazione della Casa bianca per il Vecchio continente e le relazioni internazionali in generale.

D’altronde l’aveva chiarito bene Vance alla Conferenza di Monaco: «C’è un nuovo sceriffo in città». Un disprezzo vieppiù dimostrato anche nell’ormai famosa chat Signal: «Odio salvare di nuovo l’Europa», aveva scritto discutendo degli attacchi Usa agli Houthi in Yemen. «Condivido pienamente il tuo odio per il parassita europeo. È patetico», gli aveva risposto il segretario alla Difesa Pete Hegseth. «Dobbiamo ricevere un profitto in cambio», aveva concluso il vicecapo dello staff della Casa Bianca, Stephen Miller, dopo averne parlato direttamente con Trump, che poi si è pubblicamente detto d’accordo con queste affermazioni insultanti, soprattutto nella parte in cui si rimarca l’insufficiente contributo economico dell’Europa. Un’Ue accusata di «derubare» gli Usa, un comportamento definito «triste» e «patetico» dal presidente durante il suo annuncio di nuovi dazi, con cui la Casa bianca ha, da una parte, picconato un altro pilastro della politica estera statunitense, la globalizzazione, e dall’altro chiarito quali Paesi considera suoi amici e quali no.

La mossa del pinguino
A guardar bene, la lista delle nuove tariffe doganali previste Paese per Paese sembra più un elenco di “cattivi” che un provvedimento economico. Non a caso, dopo la Cina, troviamo in cima all’elenco l’Ue. Ma è la formula stessa con cui sono state calcolate queste aliquote a chiarire meglio la questione. Come spiegato dall’ufficio del Rappresentante per il Commercio Usa, per calcolare i dazi «reciproci» sui diversi Paesi, Washington ha diviso il deficit commerciale nazionale con quella specifica economia per il totale delle importazioni provenienti dalla stessa area, mantenendo una soglia minima del 10%. Una formula mai usata prima ma che spiega perché tra i primi Paesi in cima alla lista figurino quelli con il maggior deficit commerciale, in termini di beni, nei confronti degli Usa: Pechino con oltre 295 miliardi e l’Ue con più di 235.

All’appello però mancano diversi Stati, come la Russia. Malgrado l’elenco sia tanto completo da includere persino il territorio australiano delle isole Heard e McDonald, abitate solo da foche e pinguini, non vi figurano né Mosca né Cuba, Bielorussia e Corea del Nord, escluse, secondo la portavoce della Casa bianca Karoline Leavitt «perché le tariffe e le sanzioni vigenti nei loro confronti sono già molto elevate», «impedendo qualsiasi commercio significativo». Curioso visto che, secondo la Banca Mondiale, nel 2022 gli Stati Uniti hanno importato almeno 1,4 milioni di dollari di beni dall’arcipelago antartico australiano, motivo per cui vi sono stati imposti dazi del 10%, mentre l’anno scorso il valore degli scambi commerciali tra Usa e Russia, nonostante le sanzioni, si è comunque attestato a 3,5 miliardi di dollari. Evidentemente in questo caso i dazi non servono.

Barriere così alte all’ingresso delle merci negli Stati Uniti non mostrano solo le “preferenze” della nuova amministrazione ma mettono in discussione uno dei fondamenti del potere americano nel mondo: la globalizzazione. Negli ultimi 80 anni la politica di potenza degli Usa si è fondata principalmente su due pilastri. Il primo è militare e strategico e si compone della Nato, che ha garantito la supremazia di Washington in Europa contro il suo principale nemico, l’Unione sovietica prima e la Russia poi, e di altri formati simili costituiti recentemente in funzione anti-cinese, come il Quad, con India e Giappone, e l’Aukus, con Australia e Regno Unito, di cui Trump ha finto di ignorare l’esistenza nel suo incontro con il premier britannico Keir Starmer. Il secondo invece è stato proprio il libero commercio, che ha alimentato il successo delle grandi multinazionali statunitensi, contribuendo a propagandare il modello americano nel globo.

Oggi però il presidente Usa sembra voler cambiare paradigma. In tal senso, l’America First non è solo uno slogan elettorale ma un nuovo mondo. L’aveva detto chiaramente il presidente Usa alla Casa bianca pochi minuti prima che scoppiasse la lite con Zelensky: «Non sono allineato con nessuno. Sono allineato con gli Stati Uniti». Così non sono passati nemmeno tre mesi dal suo reinsediamento che già vediamo gli effetti di questa transizione. Innanzitutto, in risposta ai dazi, due alleati di ferro di Washington come Corea del Sud e Giappone hanno annunciato che accelereranno i negoziati per un accordo trilaterale di libero scambio con la Cina, rafforzando anche la Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep) firmata nel 2020 con altri 12 Paesi asiatici, malgrado le proteste statunitensi. Qualcosa poi si muove anche nei Balcani, dove Albania, Croazia e Kosovo hanno firmato un accordo per rafforzare la cooperazione in materia di difesa a fronte della minacciata secessione dalla Bosnia ed Erzegovina della Republika Srpska, irritando oltremodo la Serbia. È il nuovo disordine mondiale, nato dalle ceneri del precedente ordine internazionale che gli Usa di Trump non intendono più sostenere ed è proprio alle porte di casa nostra.

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