Usa, dopo Donald tocca a “The Ronald”: l’anti-Trump si chiama DeSantis e arriva da destra
Ignora le critiche, ama provocare e si comporta come un bullo. Ma somiglia più a un normale repubblicano più che all’ex presidente Usa. Così il governatore della Florida può prima prendersi il partito e poi ambire alla Casa Bianca
Era il 2 marzo scorso e, a pochi mesi dalle elezioni, Ron DeSantis si preparava a una conferenza stampa alla University of South Florida. Dietro di lui, sei alunni di un vicino liceo, tutti con le mascherine. Prima di cominciare, il governatore si volta e chiede loro di scoprire il viso: «Basta con questo teatrino Covid, se volete indossarle bene ma è ridicolo». Metà dei presenti seguono il suo “consiglio”. Il giorno dopo, alla prevedibile pioggia di critiche, lo staff di DeSantis risponde con un’e-mail: «Mi danno la caccia, di nuovo (…). La propaganda di sinistra mi definisce un “bullo” per aver permesso ai ragazzi di respirare aria fresca (…). Prima che la verità venga messa a tacere, (…) dona 30, 15 o 5 dollari per aiutarmi a continuare la lotta». Alla fine, anche grazie a questi metodi, la sua campagna elettorale ha raccolto quasi 180 milioni di dollari di donazioni.
Per i suoi detrattori, basta questo a inquadrare l’anti-Trump che arriva da destra. Per altri invece è la prova che DeSantis non è come l’ex presidente, ma è un Trump 2.0. È un provocatore ma le sue gaffe non sembrano involontarie e poi è un infaticabile organizzatore, ama approfondire in prima persona e, anche se non si comporta sempre come tale, somiglia più a un normale repubblicano che a un arrabbiato agitatore politico come il miliardario. Eppure non esita a sfruttarne i metodi. E i risultati sono sotto gli occhi tutti. Alle elezioni dell’8 novembre, non ha solo vinto ma ha convinto, soprattutto indecisi, minoranze ed ex democratici. Se nel 2018 aveva ottenuto meno dello 0,5 per cento in più del suo avversario, stavolta ha superato lo sfidante democratico ed ex governatore Charlie Crist di ben 19 punti, ma al di là del risultato la sorpresa maggiore è come ha prevalso: DeSantis ha raccolto consensi tra gli ispanici, ha conquistato roccaforti democratiche e moltiplicato i voti repubblicani rispetto al 2020. Così ora, ammesso che decida di candidarsi, insidia le chance dell’ex presidente di tornare alla Casa bianca. Intanto, Ron ha subito criticato il tycoon per la sconfitta alle mid-term dopo l’annuncio della sua candidatura alle presidenziali 2024. Se infatti Trump non ha mai conquistato il cuore dell’establishment conservatore, DeSantis piace invece sia alla base che ai vertici. Tutto merito del suo stile e della sua storia.
A testa bassa
Ronald Dion DeSantis è nato nel 1978 a Jacksonville, nel nord della Florida, in una famiglia di origini italiane. Tutti i suoi nonni provengono da Abruzzo, Molise o Campania. Ha però trascorso la maggior parte della sua infanzia a Dunedin, dove il padre Ronald Daniel lavorava per la Nielsen, che si occupa di ricerche di mercato. Qui il giovane Ron, descritto da chi lo conosceva come un bambino testardo, è cresciuto in un quartiere operaio, giocava a baseball e frequentava la scuola cattolica Nostra Signora di Lourdes, prima di iscriversi al liceo Dunedin High rivelandosi uno degli studenti migliori. Tanto da essere poi ammesso all’università di Yale dove si è laureato in storia. All’ateneo ricordano due suoi tratti caratteristici: era un secchione che passava la maggior parte del tempo in biblioteca o a lavorare per pagarsi gli studi che fu eletto capitano della squadra di baseball. Anni dopo i suoi compagni lo descriveranno come una persona poco socievole, rasentante l’egoismo, ma estremamente intelligente. Uno da cui era impossibile copiare, non solo perché non l’avrebbe mai permesso ma perché il suo lavoro era così originale da risultare subito riconoscibile. Non sorprende allora la sua laurea con lode, dopo la quale per quasi un anno insegnò storia alla Darlington School, una scuola privata di Rome, in Georgia, finché non si iscrisse alla Harvard Law School per laurearsi in legge. Ma non usò il titolo per aprire uno studio legale, tutt’altro. Nel 2004, in piena guerra in Iraq, si arruolò nella Marina degli Stati Uniti ed entrò a far parte del Corpo della magistratura militare (il Jag), dove i suoi colleghi lo ricordano come un tipo piuttosto ambizioso. Tre anni dopo fu infatti promosso tenente e schierato nell’Iraq centrale come consigliere legale del SEAL Team One, un’unità delle forze speciali della Marina, a cui per un anno fu incaricato di spiegare le regole di ingaggio: quando e se sparare, come trattare i prigionieri, etc. Un periodo definito “sconvolgente” dalla sua famiglia al New Yorker, ma che DeSantis sembrò apprezzare, soprattutto per la compagnia. Tornato l’anno successivo negli Usa, il Dipartimento di Giustizia lo nominò assistente della procura nel distretto centrale della Florida, un incarico ricoperto fino al congedo, avvenuto nel 2010. L’anno prima aveva sposato la giornalista tv Casey Black, conosciuta su un campo da golf di Jacksonville, con cui ha tre figli: Madison, Mason e Mamie.
Poco dopo cominciò la sua poco folgorante carriera politica, almeno fino all’incontro con Trump. Fu eletto per la prima volta al Congresso nel 2012 nella roccaforte conservatrice del sesto distretto della Florida, ma in pochi ricordano i suoi primi anni a Washington. Descritto come più interessato alla sua ascesa politica che a proporre nuove leggi, il suo principale contributo è stata la fondazione del Freedom Caucus, un club di deputati di estrema destra contrari all’aumento del tetto al debito federale che arrivò a scontrarsi con lo speaker repubblicano della Camera, John Boehner. Proprio in questo periodo riuscì a conquistare il favore di alcuni dei principali donatori conservatori, tra cui i potenti fratelli Koch. Nonostante questo però, restava un politico di secondo piano, tanto che nel 2016 provò a candidarsi al Senato per il seggio del collega di partito Marco Rubio, ma dovette rinunciare quando il senatore in carica annunciò l’intenzione di ottenere un altro mandato. Così si avvicinò sempre di più a Trump, criticando spesso le indagini di Robert Mueller sulle interferenze russe nelle presidenziali Usa, finché nel 2017 non arrivò la consacrazione come ospite regolare di Fox News, dove fu notato dall’ex presidente.
Un Trump 2.0
All’epoca, DeSantis correva alle primarie repubblicane per le elezioni a governatore della Florida ma era in svantaggio rispetto al moderato Adam Putnam. Allora bastò un tweet e un’apparizione di Trump a un comizio di DeSantis a Tampa per assicurargli la vittoria sul compagno di partito. Storia diversa invece per la successiva campagna elettorale, costellata di gaffe, accuse di razzismo e atteggiamenti provocatori contro lo sfidante democratico Andrew Gillum, sindaco di Tallahassee e primo candidato nero alla massima carica dello stato. Proprio allora Ron cominciò a scimmiottare il suo mentore, con spot elettorali che citavano il presidente e dichiarazioni controverse senza alcun rispetto del politically correct. Non a caso, la sua macchina da guerra era guidata da quella Susie Wiles che nel 2016 aveva aiutato Trump a sconfiggere Hillary Clinton. DeSantis però, contro un candidato molto progressista in uno stato fortemente conservatore, ce la fece per un soffio vincendo con soli 30mila voti in più. Una vittoria che Trump si intesterà poi personalmente. Allora Ron capì che, al di là dei toni, le sue politiche non potevano allontanarsi troppo dalle tradizionali battaglie repubblicane e il primo segnale fu proprio il licenziamento di Wiles, che nel 2020 tornerà a fare campagna elettorale per Trump in Florida.
Una volta ottenute le chiavi del potere dall’allora presidente e compresa la forza della sua comunicazione, DeSantis cominciò a mostrare al pubblico due facce: prima presentandosi come un baluardo contro quello che definisce “estremismo di sinistra” e poi come un normale repubblicano. A marzo, ad esempio, ha varato una legge che impedisce l’aborto dopo la 15esima settimana anche in caso di stupro.
Quindi ha firmato una norma per tutelare i diritti dei genitori nella didattica, soprannominata legge “Don’t say gay”, che limita gli accenni alle questioni Lgbtq+ nelle scuole dell’infanzia ed elementari. Poi ad aprile ha abrogato i benefici fiscali per la Disney, dopo le critiche della multinazionale alla suddetta legge. Sempre nello stesso mese ha firmato il cosiddetto “Stop WOKE Act”, che impedisce lezioni sulla diversità e il razzismo nelle scuole. A settembre poi, senza alcun preavviso, ha ordinato il trasferimento per via aerea di 50 migranti arrivati dal Texas, tutti inviati sull’isola di Martha’s Vineyard, ricca destinazione del Massachusetts.
Al netto delle questioni identitarie però, DeSantis ha promosso per lo più politiche conservatrici di stampo tradizionale. In economia ha sostenuto la necessità di abbassare le tasse, contenere la spesa pubblica e ridurre la burocrazia e le regole per le imprese. È inoltre appoggiato dalla National Rifle Association per le sue politiche sulle armi libere e ha sostenuto la revoca dell’Obamacare. Alcune sue scelte l’hanno addirittura avvicinato ai moderati, come quando ha istituito una commissione contro l’inquinamento idrico e sostenuto gli ambientalisti contro i vertici del South Florida Water Management District. In politica estera poi ha condannato l’invasione russa dell’Ucraina, è contrario a un accordo sul nucleare con l’Iran, critica fortemente la Cina e si è impegnato a diventare «il governatore più filo-israeliano d’America».
Ma la questione più controversa resta la sua gestione della pandemia, da cui però emergono sia la sua personalità che le sue più profonde convinzioni politiche. Allo scoppio del Covid, DeSantis aveva deciso il lockdown in tutto lo stato, disposto la chiusura delle Rsa, chiesto ai più anziani di restare in casa, istituito i primi centri per analizzare i tamponi, creato un sito per tracciare i contatti dei positivi e ordinato milioni di mascherine per gli operatori sanitari.
Poi però qualcosa cambiò: cominciò a interessarsi in prima persona dei dati, a studiare le ricerche, a leggere riviste mediche e a consultare una serie di esperti fuori dalla Florida, secondo cui il virus non era controllabile. Così iniziò a revocare ogni obbligo e annullò il lockdown. Il prezzo furono oltre 7 milioni di contagi e più di 82mila decessi, che gli valsero il titolo di “Death-Santis”. Lui però andò avanti: a suo avviso il governo doveva solo proteggere i fragili e rendere disponibili le cure. Il resto era una libera scelta dei cittadini. A chi lo criticava rispondeva che era dalla parte di tutti coloro che non potevano permettersi di lavorare da casa e poi partiva al contrattacco, provocando e rifiutando sempre di scusarsi, come nel caso della University of South Florida. In questo, come ha raccontato un donatore repubblicano a The Hill, somiglia a Trump ma a differenza dell’ex presidente non lancia invettive incoerenti, anzi: è metodico. Appare anche più intelligente, come ha spiegato al New York Times un altro finanziatore, secondo cui DeSantis è più disciplinato del miliardario. Insomma, c’è del metodo in questa follia. ●