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Home » Esteri

Tariff Men: ecco chi sono i “Signori dei dazi” di Donald Trump

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Da sinistra a destra: il segretario al Tesoro Scott Bessent, il consigliere presidenziale Peter Navarro, il segretario al Commercio Howard Lutnick e il direttore del National Economic Council Kevin Hassett. Credit: AGF

Miliardari, manager di hedge fund, ex detenuti per l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 e “profeti” più volte smentiti. Chi sono gli uomini che consigliano il presidente nella guerra commerciale scatenata dagli Usa contro Cina, Europa, Canada e Messico

Donald Trump crede davvero nelle guerre commerciali e nei dazi e non è il solo. Per il presidente degli Stati Uniti e i suoi collaboratori, le tariffe doganali sembrano poter risolvere qualsiasi problema. A giudicare dalle sue dichiarazioni in campagna elettorale e dalla Casa bianca, le restrizioni alle importazioni aumenteranno le entrate fiscali, sostituendo le tasse nazionali e gravando sui Paesi esteri; elimineranno il deficit commerciale, riequilibrando gli scambi internazionali e garantendo reciprocità in modo che altri Stati abbassino le tariffe doganali imposte agli esportatori statunitensi; riporteranno negli Stati Uniti milioni di posti di lavoro nel settore manifatturiero; proteggeranno la sicurezza nazionale e porranno fine alla dipendenza da fornitori provenienti da potenze ostili; sanzionando, quando necessario, avversari e alleati riottosi.

«Le guerre commerciali sono una cosa positiva e (sono, ndr) facili da vincere», spiegò d’altronde Trump durante il suo primo mandato. «I am a Tariff Man» (letteralmente: «Sono un uomo dei dazi»). Ma se la sua prima amministrazione aveva due anime economiche, una definita “globalista” e incarnata dall’allora direttore del National Economic Council nonché ex dirigente di Goldman Sachs Gary Cohn, e l’altra più “isolazionista”, guidata dal consigliere presidenziale Peter Navarro, solo la seconda sopravvive nel suo secondo mandato alla Casa bianca. Il risultato è l’imposizione di dazi su tutte le importazioni di acciaio e alluminio negli Usa, un aumento delle aliquote tariffarie sui prodotti provenienti da Cina, Canada e Messico e una serie di minacce contro l’Unione europea e il Regno Unito, che hanno già provocato ritorsioni da parte di Pechino, Ottawa e Bruxelles, spaventando i mercati azionari. Un esito che però non preoccupa i signori dei dazi di Trump.

La transizione “America first”
«I mercati saliranno e scenderanno ma, sapete una cosa, dobbiamo ricostruire il nostro Paese», aveva spiegato il presidente al Business Roundtable dell’11 marzo, alla presenza dei vertici delle grandi aziende americane. «La vittoria più grande è se (le imprese, ndr) si trasferiscono nel nostro Paese e creano posti di lavoro. Questa è una vittoria più grande dei dazi stessi», aveva aggiunto. In fondo il giorno prima ci aveva pensato il suo vice JD Vance a illustrare questa strategia: «Le politiche economiche del presidente Trump sono semplici: se investite e create posti di lavoro in America, sarete ricompensati. Alleggeriremo gli oneri normativi e ridurremo le tasse. Ma se producete fuori dagli Stati Uniti, siete soli». Anche la portavoce della Casa bianca, Karoline Leavitt, aveva parlato di una «transizione economica» in corso «per rilanciare la produzione americana e il predominio economico globale» degli Usa. «L’ultima era globalista americana», aveva giurato Leavitt, «sta finendo», sostituita dal «programma economico America first».

Finora questo principio si è tradotto in una guerra commerciale scatenata prima di tutto contro gli alleati degli Stati Uniti e poi contro la Cina. Sin dalla fine di novembre, dopo la vittoria delle presidenziali, Trump aveva annunciato nuovi dazi, finché una volta tornato alla Casa bianca, a febbraio, aveva cominciato a imporne alcuni, sospendendone altri. Il 5 marzo sono entrati in vigore i dazi (prima fissati al 10 e poi portati al 20 per cento) su tutte le importazioni negli Usa dalla Cina, che ha risposto con un aumento dal 10 al 15 per cento delle tariffe sul settore agroalimentare americano e con una serie di restrizioni e inchieste contro alcune aziende statunitensi. La settimana successiva Washington ha aumentato al 25 per cento l’aliquota sulle importazioni di acciaio e alluminio, provocando la reazione dell’Ue su 26 miliardi di euro di prodotti americani, tra cui il whiskey, una contromisura a cui Trump ha reagito minacciando di portare al 200 per cento i dazi Usa contro vini e alcolici prodotti in Europa. Clima ancor più rovente con il vicino Canada, che il magnate repubblicano vorrebbe addirittura annettere agli Stati Uniti e che ha risposto all’innalzamento delle tariffe con nuovi dazi su 20 miliardi di dollari di prodotti americani. Non solo: quando il premier della provincia dell’Ontario, Doug Ford, ha minacciato di aumentare le aliquote sulla fornitura di elettricità generata in Canada al Michigan, al Minnesota e a New York, il presidente Usa ha minacciato di «distruggere l’industria dell’auto» del vicino settentrionale, due minacce finora rientrate ma che hanno spaventato investitori e mercati azionari.

Gli effetti della Trumpnomics
Tanto che nei primi 50 giorni della seconda presidenza Trump i principali indici di Wall Street, S&P500, Dow Jones e Nasdaq, hanno registrato perdite comprese tra il 6 e il 9 per cento. Nello stesso periodo, l’indice di volatilità VIX del Chicago Board Options Exchange (Cboe), che misura il sentiment del mercato e la percezione del rischio degli investitori, è cresciuto di oltre il 41 per cento. Una paura che comincia a vedersi anche nelle rilevazioni d’opinione: secondo la media pubblicata sul suo Silver Bulletin dal fondatore dell’ormai defunto portale FiveThirtyEight ed esperto sondaggista Nate Silver, nello stesso momento e per la prima volta dal suo insediamento, l’indice di gradimento del presidente conta più persone scontente che sostenitori.

Una tendenza registrata anche dalla Casa bianca, viste le recenti ammissioni dei vertici dell’amministrazione. «I dazi servono a rendere l’America di nuovo ricca e grande, sta succedendo e succederà piuttosto in fretta», ha riconosciuto Trump durante il suo primo discorso alle Camere riunite del Congresso dopo il suo insediamento. «Ci saranno dei piccoli disordini ma andrà tutto bene. Non saranno molti». Ma sembra far tutto parte del piano, se già a ottobre il suo principale finanziatore, Elon Musk, aveva avvisato gli elettori di una serie di «difficoltà» economiche in caso di vittoria del candidato repubblicano. Ora però che queste cominciano a materializzarsi sono gli uomini dietro alla Trumpnomics a doverci mettere la faccia.

Per il segretario al Commercio Howard Lutnick, i dazi provocheranno un innalzamento dei prezzi «su alcuni prodotti per un breve periodo di tempo». Tuttavia, ha assicurato a Fox News definendo le nuove tariffe «fondamentali per la sicurezza nazionale», «non si tratta di inflazione». Tutt’altro, gli ha fatto eco il segretario al Tesoro Scott Bessent, secondo cui in questa fase l’economia statunitense ha bisogno di un «periodo di disintossicazione». Ma chi somministra la cura?

Altro che “business as usual”
Se gli esponenti e i consiglieri economici della prima amministrazione Trump si dividevano in “globalisti” e “isolazionisti”, tutte le nomine del secondo mandato del presidente Usa sono state all’insegna del “Make America Great Again”. Questo però non vuol dire che la squadra del magnate non nasconda delle sfumature. I segretari nominati nel gabinetto ad esempio, anche per l’esigenza di passare l’esame della maggioranza repubblicana al Senato (non ancora completamente schierata sulle posizioni MAGA), sembravano, se non moderati, almeno “ragionevoli”.

La figura più emblematica è il miliardario Scott Bessent, che quando fu nominato segretario al Tesoro da Trump fu aspramente criticato da Elon Musk, per cui la scelta di un ex gestore di fondi speculativi era troppo «business as usual» e vicina a Wall Street per attuare il programma del presidente. Nato nel 1962 a Conway, in Carolina del Sud, da una coppia di promotori immobiliari, con il suo curriculum di laureato e poi docente all’università di Yale e di socio, fondatore e dirigente di numerosi hedge fund sembrerebbe il classico candidato repubblicano all’incarico economico più importante del governo statunitense. Seppur atipico, visto che parliamo del primo segretario al Tesoro pubblicamente omosessuale (è sposato con l’ex procuratore di New York John Freeman, con cui ha due figli) nonché primo membro gay di un’amministrazione repubblicana mai confermato dal Senato, il miliardario appariva abbastanza vicino a Wall Street per essere ascritto alla componente moderata della nuova amministrazione. Malgrado la sua nomea però Bessent non ha mai contraddetto Trump sui dazi, anzi. Considerato tutt’al più favorevole a un innalzamento graduale delle tariffe doganali, in un editoriale su Fox News ha affermato che queste misure non producono inflazione, respingendo l’accusa di 16 economisti vincitori del premio Nobel. Inoltre il miliardario alla guida del Tesoro Usa ha recentemente avvisato gli investitori che la Casa bianca non intende intervenire per aiutare i mercati spaventati dagli annunci improvvisi del presidente. Dichiarazioni che non dovrebbero sorprendere da parte di chi, poco dopo le elezioni, era arrivato addirittura a proporre di legare le garanzie di sicurezza offerte dagli Usa ai Paesi alleati al riequilibrio degli scambi commerciali.

Osservazioni però insufficienti per convincere l’uomo più ricco del mondo, per cui Bessent aveva un difetto fastidioso: prima dal 1991 al 2000 e poi di nuovo dal 2011 al 2015 aveva infatti lavorato per il Soros Fund Management, la società di investimenti del principale finanziatore dei democratici con cui Musk è in aperto conflitto da anni. Nel maggio 2023, dopo la vendita di titoli Tesla da parte del suo gruppo, il 95enne sopravvissuto all’Olocausto fu paragonato dall’alleato di Trump a Magneto, il supercattivo della serie X-Men della Marvel: «Vuole erodere il tessuto stesso della civiltà. Soros odia l’umanità», accusò allora Musk, che un anno dopo provò a convincere il presidente a non nominare uno dei suoi ex dirigenti alla carica di segretario al Tesoro: «La mia opinione, per quel che vale, è che Bessent sia una scelta “business as usual”. Ma proprio questo sta portando l’America alla bancarotta, quindi abbiamo bisogno di cambiare», tuonò il patron di Tesla, X e Space X, che al miliardario ed ex gestore di fondi speculativi preferiva Howard Lutnick, poi scelto da Trump come segretario al Commercio e la cui storia, piuttosto tragica, ne descrive bene il carattere e le qualità per cui è apprezzato dal presidente.

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“Il più odiato di Wall Street”
Lutnick, il cui patrimonio personale è stimato in 1,5 miliardi di dollari, la racconta spesso. L’11 settembre 2001 era andato a lasciare il figlio all’asilo, quando cinque dirottatori fecero schiantare il volo American Airlines 11 sulla facciata settentrionale della Torre Nord del World Trade Center di New York, dove tra i piani 101 e 105 si trovavano gli uffici della sua società d’investimento Cantor Fitzgerald, di cui fino a quest’anno è stato prima presidente e poi a.d. rispettivamente dal 1991 e dal 1996. Lui fu l’unico a salvarsi quella mattina mentre tutti i 658 (su 960) dipendenti allora presenti rimasero uccisi, compresi il fratello Gary e il suo migliore amico Doug Gardner, oltre a 29 coppie di fratelli e sorelle. «Volevamo lavorare soltanto con persone che ci piacevano», ha ricordato spesso, parlando del suo «inusuale modello» di assunzioni. Allora l’attuale segretario al Commercio promise di devolvere alle famiglie delle vittime parte dei futuri profitti registrati nei successivi cinque anni, una somma equivalente a 180 milioni di dollari. Una somma generosa, in gran parte recuperata da American Airlines e dalle compagnie assicurative che nel 2013 accettarono di versare 135 milioni di dollari alla Cantor Fitzgerald, un accordo che allora Lutnick definì la «fine di una formalità legale». Quando a novembre Trump ne annunciò la nomina su Truth si riferì a questa storia e al suo protagonista come «l’incarnazione della resilienza di fronte a una tragedia indicibile».

Chi lo ha conosciuto invece usa parole differenti. Amico personale di Trump e presenza fissa a Mar-a-Lago, su Forbes un ex socio lo ha definito «l’uomo più odiato di Wall Street», la cui azienda per anni ha «spremuto soldi dalle persone: clienti, investitori e colleghi». «L’intera società mirava a fregare le persone», ha spiegato alla rivista un ex dipendente. «Si trattava di schiacciarli». Questo è l’uomo a cui Trump ha affidato l’attuazione della sua politica doganale, che Lutnick condivide con entusiasmo. «I dazi sono uno strumento straordinario che il presidente può usare: dobbiamo proteggere il lavoratore americano», spiegò a settembre in un’intervista alla Cnbc. «Queste politiche sono la cosa più importante che l’America abbia mai avuto», ha aggiunto di recente alla Cbs, affermando che «ne vale la pena» anche se dovessero portare alla recessione. Tanto poi i dati si possono aggiustare: a inizio marzo infatti ha annunciato che il suo dipartimento sta valutando lo scorporo del computo della spesa pubblica dal calcolo del Pil per attenuare gli effetti sulla crescita dei tagli decisi da Elon Musk. Eppure Lutnick è considerato ancora un moderato a confronto dei più leali collaboratori economici di Trump.

Fedelissimi, ideologi e profeti
Il consigliere per la politica commerciale del presidente, Peter Navarro, ha ad esempio trascorso quattro mesi in carcere l’anno scorso, dopo essersi rifiutato nel 2022 di ottemperare a una citazione del Congresso che gli chiedeva conto di un presunto piano per l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021. Soprannominato per questo da Trump “il mio Pete”, il 75enne autore di un libro intitolato “Death by China” (Morte per mano della Cina) è considerato il vero ideologo dei dazi sull’import di acciaio e alluminio e del ricorso a elevate “tariffe reciproche” per ridurre il deficit commerciale e aumentare la produzione statunitense.

Un altro teorico del MAGA invece è Stephen Miran, finanziere, ex dirigente di grandi aziende e candidato alla presidenza del Council of Economic Advisers, che in un saggio a novembre ha proposto un “accordo Mar-a-Lago” (sul modello dell’Accordo del Plaza concluso nel 1985 da Ronald Reagan con Francia, Giappone, Regno Unito e Germania ovest) volto a indebolire il dollaro sui mercati valutari per favorire l’export statunitense e costringere i creditori stranieri a scambiare i titoli del Tesoro già acquistati dagli Usa con obbligazioni a scadenza “secolare”, un piano che però richiederebbe un’improbabile cooperazione cinese.

L’ultimo profeta della Trumpnomics è il direttore del National Economic Council, Kevin Hassett, tra i papabili a sostituire il governatore della Federal Reserve, Jerome Powell, alla fine del suo mandato nel 2026. Anche se quando si parla di previsioni è meglio non farci affidamento. Nel 1999 infatti, insieme al giornalista e futuro sottosegretario di Stato di George W. Bush, James K. Glassman, scrisse il libro “Dow 36,000”, che prediceva un forte rialzo delle borse dopo il 2000, una profezia smentita dalla successiva bolla speculativa delle dot.com e dalla grande crisi finanziaria del 2008. Durante il primo mandato Trump poi, come consulente per l’emergenza Covid, costruì un modello che prevedeva l’azzeramento dei contagi entro il maggio 2020, quando invece soltanto i morti superarono i 115mila (le vittime alla fine saranno oltre 1,2 milioni). Ma, come ha spiegato alla Cnbc, ci sono ancora «molti motivi per essere estremamente ottimisti sul futuro dell’economia» americana. Se lo dice lui.

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