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Home » Esteri

La guerra di Donald Trump contro la Columbia University

Immagine di copertina
Credit: AGF

La Casa bianca minaccia tagli ai fondi degli atenei non allineati con le sue politiche. Ma accusa addirittura il campus di New York di antisemitismo per le proteste contro la guerra a Gaza. E vuole censurare il dipartimento di Studi mediorientali. Sfidando la libertà accademica

Da tempo le grandi università americane sono tra le mete più ambite dalle menti più brillanti del pianeta, ma la recente svolta autocratica degli Stati Uniti ha trovato una delle sue espressioni più feroci nella recente campagna di espulsione degli studenti stranieri che hanno partecipato alle manifestazioni per la Palestina nei vari campus del Paese.

In una lettera inviata il 15 marzo scorso alla Columbia University, l’ateneo d’élite nel cuore di New York, l’amministrazione Trump ha avanzato nove richieste da soddisfare come precondizione per riprendere le trattative sui 400 milioni di dollari tagliati dal governo per il presunto «antisemitismo nel campus». Tra queste, la decisione di sottoporre il dipartimento di Studi mediorientali, sud asiatici e africani, il Mesaas – dove hanno fatto lezione professori del calibro di Edward Said e ancora insegnano alcuni tra i massimi teorici viventi del post-colonialismo come Achille Mbembe e Bachir Diagne – sotto «amministrazione controllata» per i prossimi cinque anni con l’intento di «sradicare» l’attuale dirigenza, ponendo così fine a una tradizione ultra-decennale di libertà accademica negli States.

Trump ha inoltre minacciato di tagliare i fondi federali a tutti college non allineati con la sua “Agenda 47”, prendendo di mira anche le atlete transgender che partecipano agli sport femminili e i programmi di diversità, equità e inclusione, e il 4 aprile ha annunciato l’avvio delle indagini su queste iniziative in 52 campus del Paese.

Alle radici dello scontro
L’ex presentatore tv non ha mai nascosto il suo disprezzo verso i college di prestigio, ma la Columbia ha subito un attacco particolarmente violento. Il primo scontro tra le due istituzioni newyorchesi – il miliardario presidente degli Stati Uniti e l’università della Ivy League con 270 anni di storia e 87 premi Nobel – risale a 25 anni fa e riguardava un lucroso affare immobiliare. La Columbia voleva espandere il suo campus e Trump offrì dei terreni, ma la trattativa da 400 milioni di dollari non andò a buon fine. Sostenendo che si trattava di un grande affare e suggerendo addirittura di ribattezzare il nuovo istituto “Donald J. Trump School of Business”, il magnate fu definito in pubblico dal rettore un «incapace» e un «inetto». 

Ma l’ex immobiliarista, che sembra non aver dimenticato l’offesa, si è poi scontrato con la Columbia su un altro campo di battaglia che riguarda la libertà d’espressione, la libertà accademica e il ruolo del governo federale nei finanziamenti alle università.

Oggi la Casa Bianca sembra mirare a una vera e propria campagna di deportazione degli studenti stranieri che hanno dimostrato il loro sostegno verso la causa palestinese, accusando i pro-Pal di essere tout court pro-Hamas. Come dimostrazione del suo incrollabile sostegno verso Israele, l’8 marzo Trump ha fatto deportare Mahmoud Khalil, studente laureato alla Columbia University in possesso di una green card e senza alcun reato alle spalle, per aver organizzato le proteste contro il genocidio di Gaza; un episodio definito da molti osservatori – persino conservatori, come Candace Owens e Ann Coulter – senza precedenti. Nelle ultime settimane il giro di vite si è poi stretto anche intorno ad altre università, tra cui Arizona, Colorado, Cornell, North Carolina, Oregon, PennState, Texas e Harvard. L’accusa formulata dal segretario di Stato Usa Marco Rubio contro gli attivisti è di aver partecipato a «potenziali attività criminali» e ad oggi almeno 300 studenti stranieri si sono visti revocare il visto d’ingresso e in molti casi annullare il permesso di residenza, senza alcun preavviso.

Test newyorchese
In risposta alle richieste dell’amministrazione, la Columbia si è impegnata ad adottare una definizione formale di «antisemitismo», ad assumere delle forze dell’ordine interne che avranno il potere di arrestare gli studenti e di sottoporre il Mesaas al controllo di un’autorità esterna. Molti temono che l’attacco all’ateneo rappresenti un test – un modo per soppesare la reazione dell’opinione pubblica, valutare i prospetti di una risposta legale e creare un precedente. 

Gli attriti tra i repubblicani e gli ambienti dell’istruzione superiore vanno avanti da decenni, ma l’amministrazione Trump, nonostante sia guidata da un presidente laureato all’Università della Pennsylvania, ha adottato un approccio particolarmente caustico e punitivo; anche il vicepresidente JD Vance, uscito da Yale, ha definito i professori e le università «il nemico» e Christopher Rufo, noto attivista ultraconservatore vicino alla Casa bianca, di recente ha dichiarato che la sua missione è utilizzare i fondi federali per instillare un «terrore esistenziale» nei campus. 

L’accettazione delle richieste del governo da parte della Columbia, insieme alle recenti dimissioni dell’ultimo rettore ad interim dell’università, Katrina Armstrong, il secondo a lasciare negli ultimi otto mesi, ha scatenato una condanna a livello nazionale da parte dei sostenitori della libertà accademica, che temono ulteriori ingerenze governative. 

Come ha sottolineato al New York Times da Sheldon Pollock, professore alla Columbia ed ex preside del Mesaas, l’ateneo «è il canarino nella miniera del totalitarismo». Nonostante studiosi come Rashid Khalili e altri noti esperti della questione palestinese siano più affiliati ad altre facoltà, il Mesaas è diventato il simbolo delle proteste pro-Palestina nel campus, che ha una lunga storia di impegno civile e attrae per questo molti studenti progressisti. Il celebre testo di Said, “Orientalismo”, è ad esempio ritenuto un’opera fondamentale sul post-colonialismo, e le sue opere successive sul Medio Oriente, e in particolare sulla Palestina, lo hanno reso un’icona della causa araba alla Columbia, dove ha trascorso tutta la sua carriera. Ma anche un obiettivo.

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Clima maccartista
La stretta governativa che ha travolto la Columbia non riguarda però solo la Palestina, è una vicenda di potere e ideologia. Si tratta di libertà di espressione, politica di immigrazione, uguaglianza costituzionale e forme di controllo sulla vita degli altri.

Il giro di vite è una dichiarazione contro la mobilità sociale e una storpiatura della parola “opportunità”. Il governo fa leva sulle accuse maccartiste di «antisemitismo» come capro espiatorio per giustificare il suo attacco indiscriminato verso gli studenti stranieri. Con i nuovi attacchi in corso ad Harvard e negli altri atenei, gli Stati Uniti sono a un punto critico dov’è necessario riconoscere che ciò che sta avvenendo sotto gli auspici dell’eradicazione dell’antisemitismo è, in realtà, una forma di terrorismo per dividere la società. Si tratta di un uso deliberato della violenza fisica e della narrazione comune esercitata contro vittime simboliche per intimidire e sovvertire le istituzioni liberali consolidate. Un attacco poliziesco al sogno americano. 

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